Attualità

Con Peppino si conclude un’epopea unica e irripetibile per la cultura popolare della nostra città, assieme ai suoi “brothers”, ha contribuito a creare una forte identità della gente di Bagheria.

Una identità non solo culturale, ma soprattutto relazionale, emotiva ed espressiva che in modo indelebile ha segnato le radici caratteriali di tutti noi baarioti
Non ci si può non ammirare, sognare o semplicemente emozionarsi di fronte ad un carretto siciliano dipinto da Peppino e prima ancora dai suoi fratelli.

Quante volte lontano dalla nostra terra siamo andati a riannodare i fili della memoria con i colori e le gesta di paladini di Francia e saraceni infedeli dipinti sulle sponde dei carretti per tornare indietro nel tempo o solamente per ricongiungerci idealmente con la nostra infanzia e con i nostri cari.
Guttuso, Maraini, Tornatore, Buttitta, Scianna, Garajo, Levi, grandi uomini che hanno saputo apprezzare e rispettare l’arte pittorica dei Ducato, addirittura raccontandola attraverso i versi, gli scritti e le immagini.

Dietro quel trionfo di colori e di immagini c’erano però i carrettieri, quegli uomini che con il sudore della fatica e del duro lavoro hanno contribuito a far crescere la Bagheria onesta e vera che si è sempre contrapposta a quella cialtrona degli approfittatori.
Bastava osservare con attenzione un “masciddaru” per comprendere il lavoro certosino e la fantasia dell’artista che trasmettevano un pezzo della sua umanità.
La cosa più bella per me era certamente osservare Peppino Ducato, tra i  fratelli quello che ho conosciuto e frequentato più da vicino, durante il suo lavoro, ed entrare nel mondo incantato dei “fumetti” del carretto che si snodano veloci dalle sue mani!
Seduto nel suo sgabello, con l’inseparabile pennello e tavolozza, vola leggera la sua mano, con quel pennello.che sembra non toccare il legno, ma solo sfiorarlo o accarezzarlo..
Non fa pausa mentre dipinge, ma parla e spiega con semplicità quello che fa, tutto sembra irreale, fuori dal tempo ed invece sei seduto nel suo laboratorio perso nei tuoi sogni a seguire la voce suadente e serena di Peppino che come un pifferaio magico riesce a trascinarti dentro quel mondo incantato senza neppure darti il tempo di capire cosa succede.
 

E mentre dipinge Peppino racconta…..

La storia dei suoi fratelli, a cominciare da Onofrio passando da Giovanni e Minicu senza dimenticare Michele e Angelo, della sua saga familiare dai matrimoni, alle fuitine, ai momenti duri del dopoguerra alle luci della ribalta con il successo degli anno ’60 è la “storia della nostra gente”: i Ducato hanno incarnato il nostro orgoglio di bagheresi!

Quando negli anni ’60 del secolo scorso l’arte pittorica dei fratelli Ducato approda nel panorama italiano ed europeo con articoli su testate giornalistiche di rilievo (Germania, Francia, America…..), come simbolo di una cultura centenaria di un popolo, che da un’origine popolare diventa “arte di identità popolare” allora gli artisti Ducato rifuggono da tanta notorietà.

Loro non amano troppo i clamori e il vociare del successo: ai Ducato non appartiene la confusione, non credono alle persone che sanno fare solo “scrusciu e battaria” , apprezzano altro come il rispetto e l’amicizia elementi sacri su cui si dovrebbe basare una solida società.

Tutto ciò fa capire quanto sia importante l’opera svolta dai pittori Ducato, solo loro sono riusciti a trasformare l’arte povera del carretto in elemento innovativo di identità; hanno saputo coniugare l’immenso patrimonio di beni immateriali che circondano il nostro territorio con la lettura storica attraverso i colori della Sicilia.

Qualcosa di diverso che dipingere un pezzo di legno con figure di fantasia!altTutto questo Peppino lo ha vissuto nella sua esistenza, umile e delicato come un signore d’altri tempi, rispettoso del pensiero altrui e sempre pronto a fare un passo indietro per risolvere una qualsiasi questione.

In te caro Peppino non abbiamo mai colto elementi trionfalistici, mai nessuna azione auto celebrativa, anzi hai sempre ridotto le tue fatiche a qualcosa di normale a qualcosa che apparteneva ad un mondo lavorativo quotidiano.

Hai spento la tua ultima candelina terrena accanto al tesoro della tua vita, Michele, che non ha fatto mancare mai a te padre il calore e il rispetto filiale, sei stato l’ultimo tassello che mancava al puzzle della Ducato brothers per scrivere la parola fine.                                                         

Ma vogliamo pensare che i Ducato non sono finiti e che la loro arte, il loro messaggio culturale vivono nei figli e soprattutto in tuo figlio Michele, giovane architetto e vero amico.  

Caro Michele in te e nei tuoi cugini rimane l’onore e l’onere di tutelare e, se possibile, di proseguire l’azione artistica innovativa della tua famiglia, anche perché l’intera Città di Bagheria non può fare a meno del Vostro “scrigno” di memorie familiari.                                                                                                                                                                                       

Peppino hai spento la luce terrena secondo il tuo stile senza disturbare nessuno, senza rumore, con umiltà Dio ti ha regalato quest’ultimo traguardo nella serenità della famiglia.

Sei stato come un’atleta che durante una gara hai chiesto di essere “sostituito” per poterti riposare, giovedì stavi dipingendo nel tuo laboratorio e sabato ci hai salutato con il tuo immancabile sorriso così ricco di intensità e umanità che ci porteremo sempre dentro.
Con affetto infinito, caro amico, mi mancherai e ci mancherai molto.

Biagio

     foto in alto: Giuseppe e il figlio Michele Ducato /  la bottega dei Ducato Bros. foto al centro: pannello dipinto dai fratelli Ducato, controfirmato da R. Guttuso, dettaglio battaglia ponte ammiraglio.
 

Il mondo della scuola, oltre a quello della cultura, deve molto a Giuseppe Ducato.

Decantarne le doti, adesso, dopo la sua scomparsa, potrebbe apparire un’operazione demagogica, quasi scontata, di rito.

Ma non è così. Non è così nel caso del Maestro Ducato, che con passione, umiltà e flemma dallo stampo anglosassone(senza nulla togliere alla flemma bagherese..) ha accolto nel suo laboratorio diverse generazioni di studenti.

 Tra le botteghe di pittori di carretto di Bagheria, quella dei Ducato, rappresenta la più antica, più duratura e quella nella quale si sono formati il maggior numero di pittori di carretti.

E la scuola bagherese non dimentica le opere d’arte, i "masciddari" e "tavulazzi" del maestro, non dimentica l’accoglienza ricevuta nel suo atelier in occasione di tanti progetti curriculari e non finalizzati a trasferire negli studenti il valore e l’orgoglio di un ambito prezioso della cultura del nostro territorio.

L’ultimo incontro, per i bambini del Cirincione, è avvenuto qualche mese fa, nell’ambito del Progetto in rete “Ripensare il passato per costruire il futuro”. Ricordiamo con tenerezza e profonda gratitudine la generosità di Ducato nell’atto di mostrare ai piccoli la magia che si può realizzare con una tavolozza e i suoi pennelli . Il fotografo Nino Bellia ha sapientemente immortalato uno di questi fortunati istanti.

"Fu una stagione esaltante vedere i Ducato all'opera e ascoltare i loro racconti", ricorda opportunamente Giuseppe Tornatore.

I fratelli Ducato ci hanno insegnato che “Ogni grande opera d'arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l'eternità”. (Daniel Barenboim).

A nome della scuola, tutta, GRAZIE, MAESTRO.

Vittoria Casa

Dirigente Scolastico 

2° Circolo Didattico “G. Cirincione”
Bagheria 

Pensiamo sia doveroso nel momento in cui Peppino, l'ultimo dei fratelli Ducato, cultori mirabili dell'arte della pittura del carretto, ci lascia, pubblicare una riflessione di Peppuccio Tornatore sui suoi personali ricordi dei fratelli Ducato. L'intervento è tratto da un opuscolo:" Pittura del carretto siciliano - Scuola Ducato- Bagheria" pubblicato dalla Galleria d'arte moderrna e contemporanea "Renato Guttuso" nell'ottobre del 2007.

Qualche anno dopo avrei conosciuto anche gli altri fratelli. Giovanni, Minico e Peppino. Ma quando incontrai Onofrio Ducato avevo appena nove anni.

Lo ricordo benissimo perché quella fu la prima volta che misi piede in una cabina di produzione cinematografica al Capitol di Bagheria.

Che cosa ci faceva un pittore di carretti siciliani in una cabina di proiezione ? Semplice.
Giocava con il proiezionista e fotografo Mimmo Pintacuda, mio futuro maestro.

Il proiettore Cinemeccanica crepitava in quella stanzetta affumicata dalle esalazioni della lampada a d arco, Onofrio era seduto su una vecchia poltroncina con gli occhi puntati sulla Settimana Enigmistica stesa su una tavoletta di compensato,e leggeva ad alta voce le definizioni.

Talvolta i due davano la risposta in coro, altre volte era Mimmo a precederlo, oppure aprivano un dibattito, contavano le caselle, verificavano gli incroci, finalmente, quando giungevano alla soluzione, il pittore allungava un lapis accuratamente appuntito e riempiva le caselle.
 

Dire che scrivesse non è esatto.
Onofrio Ducato celebrava la parola, effigiandola con mano ferma e raffinata, disegnando le lettere con una cura ed un’eleganza smisurata rispetto alla banalità di un cruciverba.

Solo in seguito avrei scoperto che si trattava della stessa precisione con cui dipingeva i paladini, i cavalli, gli ippogrifi e gli arabeschi dei carretti siciliani che da più di mezzo secolo varcavano lo studio dei Ducato.

Lo stesso che più di un decennio dopo avrei frequentato quotidianamente per la realizzazione dl mio documentario “Il carretto”.

Fu una stagione esaltante.

Vedere i Ducato all’opera ed ascoltare i loro racconti sul passato glorioso di quell’arte in via di estinzione credo abbia segnato indelebilmente il mio modo di guardare attraverso la macchina da presa.
Ciò che più mi colpiva, in quell’animo pieno di vecchie reliquie dalle quali si traevano spunti per i soggetti dei “masciddara”, era il clima di totale autosufficienza.
A parte i colori e pochissime altre materie prime, i Ducato realizzavano da soli tutto ciò che serviva a decorare carretti, tavole votive, insegne ed i cartelloni che i compagni del PCI o della Camera del Lavoro commissionavano per le feste del l’Unità o altre manifestazioni elettorali.

Lo stucco lo facevano con le loro stesse mani, con la creta di Sciacca naturalmente, la migliore.
Anche i fogli di carta da ricalco li creavano da soli.

Con i peli delle capre costruivano persino i pennelli della per filatura delle figure, ma non peli qualunque, solo quelli tagliati dalla pancia, ch’erano più sottili e permettevano di tracciare linee finissime, indispensabili per disegnare gli occhi dei personaggi o lo sfavillio. Delle sciabole in battaglia.

Grazie ai Ducato conobbi e frequentai molti artisti di quella catena che ruotava intorno al lungo processo di costruzione e decorazione di un carretto.
Intagliatori, carradori, fabbri, sellai, e amici pittori di altri paesi della Sicilia.

Fu grazie a quel documentario che si consolidò la mi amicizia con Renato Guttuso. Lo vede e ne fu attratto.
Specialmente dalla scena della cerchiatura delle ruote.

Tempo dopo realizzai un documentario sulla sua vita e lo condussi nello studio dei Ducato dove girai una sequenza e lo intervistai.

Adorava quei pittori di carretti. Scrutava le loro opere con occhio incantato, illuminato da una familiarità antica.

Una volta il maestro aveva visto un bellissimo carretto dipinto dai Ducato e restò folgorato da uno dei quattro scacchi delle fiancate.

Raffigurava in miniatura la sua grande Battaglia sul Ponte Ammiraglio. “E’ più bello del mio” - disse-, poi prese un pennello e lo firmò.

Lo aveva già fatto un’altra volta su una riproduzione dello steso soggetto che i fratelli Ducato avevano realizzato per la sezione del partito comunista “G.Li Causi” di Bagheria, e che per anni ha sovrastato la sala delle riunioni permettendo a Garibaldi di relegare agli angoli i ritratti di Marx e Lenin.

In occasione dei settant’anni di Renato Guttuso, il consiglio comunale di cui facevo parte in qualità di consigliere del gruppo comunista, mi affidò l’incarico di progettare un dono per il maestro di Bagheria.

Corsi dai Ducato e raccontai la mia idea di un singolare “masciddaru” raffigurante la più grande battaglia che si fosse mai dipinta su una fiancata di carretto.
Tra la folla di cavalieri che combattevano impugnando lo scudo e volteggiando in aria la durlindana ve n’era uno che , a ben guardare, non indossava alcuna armatura.
Al posto della spada stringeva in pugno un pennello e invece dello scudo aveva la tavolozza di colori.
Era Guttuso.

Chissà se gli piacque. Ma per me fu un vero privilegio avere partecipato alla nascita di quell’opera.

L’immagine che non potrò mai dimenticare è la giacca che Onofrio Ducato indossava quando dipingeva.
Usava solo quella per pulirsi le mani.

Dopo anni e anni di lavoro vi erano stampate, una sull’altra, milioni di impronte digitali di tutti i colori. Un autentico capolavoro.

Nella foto di copertina Un pannello realizzato da Giuseppe Ducato e dal figlio Michele nel 1990 in occasione del 30° anniversario della nascita della Cooperativa "La Sicilia"
 

Alla fine avevamo tutti, nessuno escluso, gli occhi umidi; giovani e adulti, uomini e donne, semplici osservatori ma anche gli operatori delle comunità abituati a vivere ogni giorno a contatto con queste storie.

Durante la prima parte della rappresentazione ognuno dei presenti cercava di ricacciar indietro la lacrima, di controllare l’emozione, di dissimulare il groppo che ci prendeva alla gola.

A lasciare il segno oltre che la scarna sceneggiatura, il movimento dei corpi dei dieci attori, (tutti ragazzi ospiti della comunità della “Casa dei giovani” di Matera che interpretavano sé stessi), che rimanda alle motivazioni e alle tappe della loro personale “via crucis”; ti prendeva il ritmo martellante della musica, la spietata crudezza e insieme dolcezza delle frasi spezzate, tutte tratte dalle testimonianza dei ragazzi, da loro lette e rimandate in sala con l'amplificazione e mixate alla colonna sonora  ("Mi vedi o non mi vedi?", "Non mi senti?", "Entra", “Tanto non cambia nulla”, “in un modo o nell’altro si deve pur morire", “mamma non piangere”, “papà aiutami, non vedi come sono ridotto?”); ripercorrevano i ragazzi con intensità e partecipazione per averla vissuta sulla loro pelle, e sia pure sotto forme simboliche e movenze del corpo, il loro viaggio verso il nulla; ed a conclusione però il percorso di liberazione-purificazione e di riscatto: ("Cambia, cambia"), con la vita, quella vera, che prende il sopravvento.

E man mano che si snodava la rappresentazione, l’emozione cresceva sempre di più.

Alla fine in parecchi hanno dato sfogo a lacrime liberatorie, mentre i ragazzi di fronte a quell’interminabile applauso che voleva trasmettere amore, solidarietà, incitamento a tenere duro e a farcela, stemperano la tensione accumulata abbracciandosi entusiasti, ben compresi di avere vinto oggi una prima ma forse decisiva battaglia..

La gioia di essere riusciti a far intendere con la loro rappresentazione le motivazioni delle loro angosce, il dramma della loro solitudine, di aver vinto la prima prova, che è stata appunto quella di guardarsi allo specchio e affondare il bisturi nelle loro carni vive, senza le solite scuse e i banali pretesti con cui hanno mascherato e rimosso nel passato la realtà e camminato lungo il baratro e verso il buio.

E’ stata, credeteci, una emozione veramente dura e forte, ed il momento più alto di una giornata che aveva visto nella prima parte un omaggio non banale non solo della città di Matera ma dell’intera Regione lucana, a quegli uomini e quelle donne che venti anni fa avevano aperto una strada, o, come è stato detto, gettato un seme che ora è pianta robusta.

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E’ stato tutto questo la giornata che ha voluto ricordare i venti anni della “Casa dei giovani” di Matera, e quanti a questa “impresa” hanno portato un mattone per la costruzione.

Tina Cardinale innanzitutto, donna di grande carattere, il cui aspetto minuto cela un carattere di tenace e generosa combattente, di una persona straordinaria che la sua intelligenza e la sua forza per tutta la vita l’ha messa a diposizione di chi è più debole.

E Padre Salvatore Lo Bue, che ha aderito venti anni fa all’appello di Tina Cardinale, di aprire una sede della Casa dei giovani a Matera; Tina, allora assessore, prima comunale e poi provinciale alle politiche sociali, ed oggi vicedirettore della Comunità, fece una battaglia assieme al sindaco del tempo, che proprio per superare le diffidenze se non le vere e proprie ostilità di qualche cittadino perbenista, ospitò proprio al Comune, nella stanza accanto alla sua, il primo centro di accoglienza per quei ragazzi che volevano avviare un percorso di liberazione dalle dipendenze.

Ed Antonio La Torre, del Rotary club di Matera che ha messo a disposizione della comunità le professionalità interne all’Associazione.

Ma anche di Biagio Sciortino, che già prima di diventare sindaco di Bagheria per quindici anni a questa creatura aveva dedicato impegno e sacrifici.

E’ stata una intera regione, piccola ma dal cuore grande, che ha reso omaggio ad una istituzione che ha fatto crescere nel territorio i valori della solidarietà, e che ha ospitato nei suoi venti anni di vita oltre cinquecento ragazzi, una parte dei quali ha concluso positivamente il percorso di recupero , (che dura all’incirca due anni), e sono rientrati a testa alta e senza complessi nella società come testimonia un ragazzo di ventitrè anni che nella comunità era entrato a diciassette anni, e parla dell’operatrice come di una seconda mamma.

Ci sono rappresentanti di tutte le istituzioni cittadine, provinciali e del governo regionale: in prima fila dall’inizio alla fine della manifestazione ci sono l’arcivescovo di Matera mons. Salvatore Ligorio, il neoprefetto Luigi Pizzi, il questore Gianfranco Bernabei, l’assessore regionale Rosa Mastrosimone in rappresentanza del presidente, il presidente della Provincia Franco Stella, il sindaco sen. Salvatore Adduce, il capogruppo in consiglio comunale Brunella Massenzio, Lucia D’Ambrosio responsabile del SERT cittadino e rappresentanti del Dipartimento Dipendenze Patologiche di Bari, che hanno testimoniato del rapporto di leale collaborazione che le istituzioni di sanità pubbliche hanno avuto in questi venti anni con la “Casa dei giovani”.

Tra gli interventi più applauditi quelli del Presidente del consiglio comunale di Bagheria, Caterina Vigilia, che ha indicato la scadenza dei trenta anni di vita, che la Casa dei giovani a Bagheria compirà proprio il prossimo anno, come occasione per testimoniare della vicinanza e dell’impegno che Bagheria e i suoi amministratori intendono manifestare nei confronti della Comunità di recupero, e della segretaria comunale Mimma Ficano, che ha informato dell'intendimento dell'amministrazione che alla "Casa dei giovani" verrà esteso l’affidamento di locali già in parte occupati, da adibire come sede del centro di ascolto che si dovrà spostare dalla sede che oggi si trova in via Mattarella.

Della delegazione del comune di Bagheria facevano parte anche i consiglieri Mimmo Prestigiacomo e Antonio Scaduto

Ma gli accenti più umani e più veri vengono, come sempre, dalle parole dette con semplicità e senza enfasi dai genitori dai ragazzi che hanno vinto la loro battaglia e da quelli che questa battaglia la stanno ancora combattendo.

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Abbiamo percepito in tutti gli interventi anche la considerazione di cui padre Salvatore Lo Bue e la “Casa dei giovani” godono non solo a Matera ma nell’intera Lucania e nella vicina Puglia .

La Casa dei giovani, e non abbiamo mancato di sottolinearlo negli ultimi anni, è diventata, ci sia consentito di usare questa espressione rubata al marketing, un “brand”, un marchio che consente di far conoscere Bagheria per aspetti positivi in tutta Italia e in Europa: sono decine le delegazioni di città italiana ed europee che vengono ogni anno alla “Casa dei giovani” per conoscere modelli e protocolli organizzativi e gestionali per il recupero dei giovani dipendenti; sono decine le troupe radio tv che vengono per documentare come la “Casa dei giovani” non sia rimasta solo comunità terapeutica, ma centro di legalità perché, per esempio, in una realtà difficile come Castelvetrano hanno messo su un centro di ascolto, e fondato a Mazara del Vallo una comunità di recupero, i cui gli ospiti coltivano e mettono a frutto a le terre confiscate a Messina Denaro, producendo olio e vino biologico.

Abbiamo visto una attenzione delle autorità concreta e non formale: con il presidente della Provincia che annuncia in diretta una determinazione assunta il giorno prima dalla Giunta provinciale, che prevede che la settimana prossima inizieranno gli interventi urgenti di manutenzione e adeguamento impianti per settantamila euro, e l’impegno solenne che la stessa Provincia entro l’anno destinerà circa 700.000 euro per il recupero dell’intero immobile, che la Casa dei giovani occupa in commodato d’uso.

E’ stata una grande giornata per una città ed una regione che ha veramente, attraverso gli uomini e le donne delle sue istituzioni, voluto tributare una grande grazie a chi ha arricchito di valori umani e di solidarietà queste terre; è stata una grande giornata per quei ragazzi che hanno sentito in maniera chiara e forte la vicinanza e l’incoraggiamento di tanta gente nel loro difficilissimo percorso, e consentiteci di dirlo con legittimo orgoglio, è stata una bella giornata anche per il buon nome di Bagheria.

 

 

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