Fiat 500, un amore per la vita... - di Michele Reale

Fiat 500, un amore per la vita... - di Michele Reale

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L in questo modello sta per lusso: furono la presenza dell’indicatore del livello di carburante, i sedili reclinabili e le tasche portaoggetti a farle meritare tale appellativo. Erano altri tempi ma questo bastò a consacrare definitivamente la vetturetta, già simbolo dell’Italia che rinasce, a vero e proprio mito.

Un mito che né gli anni né i Km riescono ad affievolire, e ancora oggi gli esemplari circolanti, pur con qualche ruga, non temono di stare in mezzo a tante auto moderne, che tutto hanno tranne che personalità. 

Termine, quest’ultimo, del tutto appropriato. Lo dimostra il fatto che essa vanta il più antico club di modello, il Fiat500ClubItalia, che da oltre trent’anni unisce migliaia di appassionati cinquecentisti di tutta Italia (e non solo) con sempre più numerose iniziative e momenti di aggregazione su tutto il territorio nazionale, oltre che innumerevoli forum tematici sul web, tra i quali il 500forum.it del quale faccio parte, una vera e propria comunità fatta di persone che magari non si conoscono (se non telematicamente) ma nei quali la 500 sembra infondere un tale sentimento di amicizia da annullare le distanze Nord-Sud.

Anch’io subisco il fascino di Italia pulita e alla portata di tutti di cui è intrisa la Fiat 500 e, con Aureliana come compagna, non perdo occasione di godere e di fare rivivere così tutto quello che di bello offre la nostra terra (ed è tanto), portandoci sempre dietro un po’ di Bagheria, quella sana e rispettabile, ovunque andiamo (e la foto che affianca il testo ne è tentativo).
Scorgere in lontananza la nostra città dai paesi montani siciliani, incorniciata dal mare e da monte Catalfano, è per noi come per Ulisse il canto delle sirene, che non conduce però a sventure, bensì agli affetti più cari, quelli che sanno di buono e di dolci ricordi, gli stessi, probabilmente, di chi questi itinerari li ha percorsi prima di noi.

La passione per il cinquino e l’amore per Bagheria hanno quindi una buona fetta di responsabilità in tutto ciò, e se ci si mette anche il mio trasporto verso la scrittura, il risultato è quello che potete leggere, grazie anche ai blog “svolgimento” e “apertura a strappo”, che in questo brano hanno creduto e alla redazione di “Quattro Piccole Ruote” che ha deciso di pubblicarlo.

Michele Reale

Condividiamo l'opinione di Michele Reale: il racconto che ha scritto e le emozioni che ci restituisce meritano di essere condivise e per questo le pubblichiamo

Incredibile, il motore è partito al primo giro di chiave - tolta la patina di polvere depositata negli anni sembra quasi nuova. Il colore ancora quello: azzurro (mamma non era tanto convinta. Lei avrebbe preferito una tinta più sobria, più adatta alla famiglia). E’ bastato poi solo ruotare la vite del carburatore per eliminare gli scoppiettii della marmitta.

E’ ancora perfetta; la valigia di vimini intrecciato, che con poche lire in più potevi avere come optional, riposta nel bagagliaio - la si fissava con delle cinghie di cuoio, dietro, all’esterno, su un supporto di metallo cromato, ormai ossidato, sistemato sulla feritoia per il raffreddamento del motore. In quattro ci si stava più che comodi.

Di solito andavamo per le vacanze estive. A volte anche a Natale, quando non era troppo freddo.

Papà, messa da parte la formalità del lavoro d’ufficio, alla guida in maniche di camicia - i bottoni del colletto aperti, i suoi baffi curati e neri -, mamma accanto (i capelli raccolti in un foulard che le avvolgeva anche parte del collo, ma il vento che entrava dal tetto con la cappotta ripiegata le spostava lo stesso qualche ciocca davanti al viso e allora con un movimento cercava di contenerle). Ogni tanto si girava un attimo a sorriderci, a volte la sua mano si fermava su quella di papà appoggiata sulla leva del cambio. Le dita intrecciate.

Io e mio fratello sul sedile posteriore.

La guida tranquilla, i paesaggi scorrevano non troppo veloci, lasciandoci il tempo di ammirarli da dietro il vetro del finestrino, e intanto ci addentravamo sempre di più lasciando il mare alle nostre spalle, fino a che non scompariva del tutto - ma a giocare con la sabbia o a fare il bagno potevamo andarci quando volevamo, a me non dispiaceva (lo avremmo rivisto in lontananza dall’alto del belvedere del paese, nelle giornate particolarmente limpide).

Percorrendo strade poco trafficate ci fermavamo a mangiare le mandorle, non che in città non ce ne fossero, ma raccolte direttamente dagli alberi che crescevano nei campi ai bordi avevano un altro sapore. Un rituale, segno che ormai mancava poco, e ne approfittavamo per sgranchirci e rinfrescarci un po’. Io ne ero particolarmente ghiotto, e anche mio fratello. Lo so perché quello era uno dei pochi momenti del viaggio in cui si svegliava. Non lo disturbavano nemmeno le grattate del cambio quando papà scalava per affrontare i tornanti, nemmeno il clacson quando entravamo nel silenzioso centro abitato.

“Se mi prometti di non superare i 70 Km/h allora va bene”, disse mio padre non senza preoccupazione una sera.

Ero fresco di diploma e di patente, insistetti tanto per potere avere la macchina e andare da solo con il mio migliore amico - con lui il viaggio sarebbe stato diverso.
 

“Però tagliati i capelli” aggiunse mentre guardava di sottecchi mia madre.

Scattai dalla sedia e, ancora incredulo, stampai un bacio sulla guancia della mamma. Immaginavo che il merito dovesse essere suo.

Arrivare al paesello. Il rombo del motore tra i vicoli che subito svanisce una volta passati. I contadini curvi sui pomodori, le donne che stendono i panni, i bambini che corrono dietro un pallone. Suonare qualche colpetto attira la loro attenzione. Qualcuno si porta la mano alla fronte per oscurare un po’ il riverbero del sole e vederci meglio, altri la agitano in segno di saluto. Bello essere per un attimo il protagonista.

Ma quanti anni saranno ormai. Papà l’ha tenuta proprio bene. C’è perfino la benzina. Chissà se tutto è come allora.
Il mare è lontano e la cappotta ripiegata sul tetto. Ai lati della strada guard-rail e sparuti ciuffi di ginestre sui muretti di cemento.

Le mandorle le compriamo da un contadino che ne ha un cesto pieno.

Un centro commerciale al posto dell’abbeveratoio dove le donne andavano a lavarsi i capelli con l’acqua della sorgente. Poi la rocca e il suo castello. Più in basso la borgata è una distesa di tetti spioventi. Il corso principale lastricato di rocce bianche e l’oratorio dove i pomeriggi aiutavi gli scolari a fare i compiti. La piazza e le linee essenziali della chiesa e il caffè con i tavolini fuori. Quando ti ho incontrato la prima volta eri seduta lì.

Michele Reale