Credo che abbia a che fare con il pudore. O forse con la convinzione, così misteriosamente radicata in me, che non c’è contatto con il mondo più profondo, arcano, efficace di una voce che viene da lontano.
Quella voce crea un territorio dentro il quale presto ci muoviamo, mentre ci orienta e dispone a un’esplorazione che non obbliga a spezzare le radici volanti con le quali a essa stessa ci abbarbichiamo. È la voce che crea vicinanza: è il sentire, non soltanto con le orecchie, che crea legami profondi con gli altri e con il mondo. E la vicinanza è tutto. Non solo lo stare vicini: ma il sentire vicini gli altri, catturandone la voce, memorizzandone il respiro, che è sempre la traduzione del ritmo della vita, del battito cardiaco - così interno e misterioso, così estroflesso e radiante. Ecco, sarà questo - da quando è iniziata la drammatica sospensione dalla normalità scolastica ed le esperienza collaterale della didattica a distanza - che mi ha tenuto lontano dal mostrarmi in video ai compagni di viaggio che i miei studenti sono.
Ho preferito, continuo a preferire, far giungere soltanto la mia voce - anche nelle sembianze pallide della scrittura, che della voce è riduzione. La scuola infatti è prossimità o non è. La video lezione invece è un surrogato meschino, un tentativo maldestro di ricreare una vicinanza che finisce per convincerci, paradossalmente, che la distanza è incolmabile: e dentro quella distanza la scuola semplicemente non c’è. La video lezione ha funzione fàtica: e invece da accidente provvisorio di un doloroso stato di eccezione, è diventata il nuovo feticcio della prosecuzione dell’ordinario (già guasto di suo). Prova ne sia che il problema che maggiormente, in queste settimane, è affiorato nella pubblica discussione (tra sedicenti esperti pedagoghi, associazioni di categoria, forum di docenti immolantisi alla logica dell’adempimento) è stato quello della valutazione. Discussione che sostanzialmente si impania nello svilimento di un mestiere che non può, non deve, essere ridotto a notarile attribuzione di meriti e demeriti. Il demone della misurazione oggettiva della prestazione, persiste finanche quando - appollaiati sulla tastiera del nostro portatile - l’unica cosa che possiamo fare è stare ad ascoltare, se arriva, la voce dei nostri piccoli “altri”. E invece ci si arrovella nella ricerca dello lo standard che misuri la quantità, laddove l’unica cosa importante è, con ogni mezzo, aiutare i giovani a elaborare l’esperienza globale in corso. Ricordare loro che comunque il tempo sospeso che viviamo è ancora il tempo della loro vita - è il resto della loro e della nostra vita. Neanche adesso però - che sciatteria! - il mondo della scuola smette di essere fedele alla burocratizzazione dei suoi riti e dei suoi passaggi, in un’ansia ottusa e pedante per una para-legalità che non è utile a nessuno: e tutto questo mentre si dovrebbe essere vulcani di leggerezza; mentre si dovrebbe essere capaci di gesti e parole senza polvere e senza peso. Una questione di gusto, verrebbe da chiosare con Herbert*: o di cattivo gusto.
La scuola o è vera presenza o non è. È vicinanza reale, concreta: è anche vedere, in controluce, la leggera pioggia di saliva (cosa che adesso tanto atterrisce, da quando quell’effetto collaterale del parlare si è impregnato di un suono straniero: il droplet contagioso) che un essere umano produce mentre legge Dante o enuncia il teorema fondamentale dell’algebra. Vicinanza è stare insieme, come comunità di individui responsabili, dove ciò che conta è quanto si riesce a fare insieme; quanto si riesce a crescere e diventare se stessi condividendo anche se stessi con gli altri: una socialità ben diversa da quella sclerotizzata dove ognuno non è altro che another brick in the wall, un mattoncino indistinguibile dagli altri e perciò misurabile con righello e scala decimale.
Papa Francesco lo ha ricordato durante la sua preghiera straordinaria sul sagrato deserto di Piazza San Pietro: “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti”. Su questa barca ciò che dobbiamo sforzarci di garantire ai nostri giovani compagni di viaggio è l’esperienza autentica della comprensione: essere responsabili nei loro confronti - attraverso ciò che è il piccolo e vario argomento di studio, di lettura, di riflessione, di discussione che proponiamo - in senso morale, spirituale, psicologico. E questo possiamo farlo, come ha raccontato Camus nel suo Il primo uomo, non limitandoci a somministrare ( e a misurare, valutare… ) i piccoli segmenti di sapere che siamo autorizzati a diffondere, ma accogliendo, modestamente, i giovani nella nostra vita; vivendola, per come e quanto è possibile, con loro; forse anche mettendoli a parte della nostra storia e illustrando i nostri punti di vista sul mondo - ma rimanendo reticenti a proposito delle nostre idee sul mondo. Quello che ci importa sopra tutto, infatti, deve essere la libertà: che essi si facciano, anche attraverso di noi, malgrado noi, le loro “idee” sul mondo. L’unica cosa che occorre, per questo, è giudicarli degni di scoprirlo, il mondo… esattamente come Camus diceva del suo indimenticato maestro, il Signor Bernard. Solo così potremmo ridurre questa distanza a una parvenza di soddisfacente vicinanza.
Ci ricorda la impareggiabile Mariangela Gualtieri:
Natura è fatta di voci incatenate dentro.
Venite, cari ospiti del mattino che fate di ogni
giorno una festa.
Ecco, facciamo che le voci incatenate dentro, ovvero ciò che viene affidato alla memoria, possa costituire la zavorra che dà equilibrio all’Io e alla nostra relazione con gli altri, con il mondo. Facciamo in modo che in questo turbinoso silenzio che la pandemia ci impone, ascoltare la voce dell’altro sia come abbracciare gli alberi. Perché in nulla meglio che negli alberi si può percepire il futuro e la durata. I giovani sono i nostri alberi: “ le radici in fondo alla terra e le chiome che si perdono nel cielo, la vita che rinasce ogni primavera dopo che è sembrata morire in autunno”.
Maurizio Padovano, docente di lettere presso il Liceo Scientifico “G.D’Alessandro” e la Scuola Popolare We care
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*POTENZA DEL GUSTO
Alla professoressa Izydora Dàmbska
Non c’è voluto certo un grande carattere
per il nostro rifiuto dissenso e opposizione
abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio
ma in fin dei conti è stata una questione di gusto
Sì di gusto con fibre d’anima e cartilagini di coscienza
Chissà se ci avessero tentato meglio e con più grazia
mandato rosee donne piatte come un’ostia
o le creature fantastiche dei quadri di Hieronymus Bosch
ma l’inferno allora qual era
una fossa umida un vicolo di assassini una baracca
chiamata palazzo di giustizia
un Mefistofele casereccio in giacca alla Lenin
spediva in missione i nipotini dell’Aurora
ragazzi con facce come patate
ragazze molto brutte dalle mani rosse
Davvero la loro retorica era fin troppo grezza
(Marco Tullio si rivoltava nella tomba)
catene di tautologie un paio di concetti come martelli
una dialettica di carnefici nessuna finezza nell’argomentare
una sintassi priva della grazia del congiuntivo
Così dunque l’estetica può essere d’aiuto nella vita
non si deve trascurare la scienza del bello
Prima di aderire bisogna esaminare attentamente
la forma dell’architettura il ritmo di tamburi e pifferi
i colori ufficiali il rituale meschino delle esequie
I nostri occhi e orecchi si sono rifiutati d’obbedire
i principi dei nostri sensi hanno scelto un altero esilio
Non c’è voluto certo un grande carattere
abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio
ma in fin dei conti è stata una questione di gusto
Sì di gusto
che ci impone di uscire storcere il viso sibilare lo scherno
dovesse pur cadere l’inestimabile capitello del corpo
la testa
Zbigniew Herbert, 1982