Deve essere così per i pugili quando, all’improvviso, arriva il colpo secco che stordisce e ovatta la percezione della realtà circostante.
Il mondo, prima di cadere sulle ginocchia, non svanisce di colpo: si allontana poco alla volta, si fa sempre più piccolo come un treno che si perde in lontananza. Sono trascorsi poco più di otto giorni dalla sospensione delle attività didattiche nelle scuole italiane e mi sento come quel pugile: la scuola mi sembra lontana e piccolissima sullo sfondo. A livello emotivo, per me, è evidentemente trascorso molto più tempo di quanto il calendario non dica: l’interruzione della routine, che tanto avvilisce in alcuni periodi dell’anno scolastico, e l’eccezionalità del motivo di tale sospensione, hanno come congelato le giornate che sono seguite. Sarà perché ci sono entrato quasi cinquanta anni fa in un’aula scolastica (e, di fatto, non ne sono più uscito) ma mi sembra trascorso un decennio - e non una settimana - da quando mi sono seduto l’ultima volta dietro la mia cattedra di professore di lettere e ho guardato in faccia i miei ragazzi. Li vedo entrare ogni mattina in classe uno per uno, alla spicciolata - chi con passo marziale, chi svogliato, chi in ansia per il ritardo, chi con l’allegria contagiosa che solo la giovinezza ci dona: li osservo e non pronunzio verbo tranne il “buon giorno” di rito. Attendo sempre, prima di dire qualcosa, di intercettare la frequenza emotiva giusta per premettere, a qualsiasi parola ulteriore, un sorriso. Sorridere è il modo migliore per cominciare la giornata: tutto ciò che dirò dopo è come se si depositasse su un tappeto volante che ha il buon umore come pilota automatico. Una magia che non si può spiegare altrimenti, ma che a tutti è dato vivere quando si entra davvero in relazione con gli altri, e non soltanto a scuola. Perché questa esperienza abbia luogo degli altri devi però sentire la presenza attraverso il corpo, il calore dello sguardo, il pulsare dell’intelligenza - e attraverso quella forma universale di preghiera che è l’attenzione di un essere umano che ascolta.
La prossimità è una dimensione insostituibile per l’educazione, il dialogo, l’apprendimento, la crescita. Una prossimità fisica in cui la grana della voce, il pulsare dell’iride, lo scorrere della mano sul foglio, consentono un controllo della situazione di apprendimento che non è in alcun modo misurabile: sai che il processo è in atto, sai che delle idee stanno nascendo nella mente altrui, e tanto basta.
Stamane, seduto davanti al mio PC e pronto ad avviare la chat di discussione con i miei studenti, penso che la didattica “informatica” a distanza non possa colmare la distanza reale. E me ne convinco quanto più sento infuriare intorno a me la nevrosi di un attivismo, di una frenesia, che mirano, anche a distanza, alla follia della misurabilità e della valutazione di ciò che si fa e si “somministra” ( la lingua è sempre rivelatrice…) ai nostri alunni. È vero, d’altro canto, che gli strumenti informatici ci stanno aiutando a mantenere un contatto, a prolungare la nostra voce, a coltivare l’umano nella condivisione di pagine scritte e voci catturate nei social media: solo venti anni fa, e forse meno, in una crisi come quella in corso tutto ciò non sarebbe stato possibile. Ma ciò che stamane mi risulta improvvisamente chiaro - più chiaro che mai - è il fatto che forse la didattica a distanza, con il suo profluvio di chat e piattaforme informatiche, si stia ingolfando in una insperata eterogenesi dei fini: mostrandoci che ciò che davvero conta lo possiamo continuare a seminare - anche a distanza, paradossalmente - soltanto infischiandocene (finalmente…) di capacità, abilità e conoscenze. E del loro mortale abbraccio nel concetto di “competenza”: sintesi perfetta di una pedagogia fredda, mirata non alla formazione dell’individuo (della sua personalità, dell’autonomia delle sue scelte) ma al suo posizionamento (secondo criteri dell’oggi che saranno obsoleti dopodomani) nell’economia del paese (sempre più subordinata a logiche e flussi che col paese c’entrano poco); di una scuola che non sa che farsene dei maestri e dei professori e forse cerca soltanto “promoter pedagogici”.
Ciò che sto facendo in questi giorni, a lume di quanto il DPCM del 4 marzo 2020 mi consente, è “considerare la didattica a distanza non solo come trasmissione di compiti da svolgere”. Se infatti sono privato dell’essenziale di una relazione umana (ovvero la presenza fisica e tangibile, anche disturbante di altri esseri umani), posso però ribaltare la distanza che il virus e il mezzo informatico mi impongono a mio favore: e soprattutto a favore dei miei alunni. Rinunciare perciò agli orpelli e alle lucine da albero di natale che le varie piattaforme pedagogiche propongono e concentrarsi sull’essenziale, cioè sul messaggio che una volta tanto possiamo provare a far prevalere sul mezzo. Provare solo a impartire “il pane del sapere” che vuole dire anche, ci piaccia o meno (ai misuratori di competenze forse non piace) distinguere il bene dal male. E così, ciò che mi era sembrata una costrizione, forse si può rivelare una insospettabile pratica di libertà. Allegando in piattaforma un documento su Tito Livio e una riflessione di Le Goff su Storia e memoria; utilizzando i podcast della Radio pubblica per far ascoltare la voce di Camus (con Remo girone che legge le pagine del grande scrittore francese) o di Von Orvàth, di -Acheng; riflettendo sui giorni difficili che stiamo vivendo attraverso gli interventi pubblici di scrittori come Scurati; leggendo i versi meravigliosi e intensi di Mariangela Gualtieri - si può mirare all’essenziale: far sì che altri accettino da te una scommessa e un lascito, lasciandosi persuadere a divenire autonomi nel saper collegare i fenomeni, nel saper vedere la realtà.
La distanza dalla nostra quotidianità ci può fornire la giusta misura di ciò che, passata la tempesta, dovremo avere cura di cambiare una volta per tutte. Perché ci sono molte cose da cambiare, se vogliamo sottrarci alla zona grigia nella quale, a scuola e fuori, tutti brancoliamo. Trasformiamo questa distanza imposta nella “giusta distanza” per guardare a ciò che si potrà ancora fare. Del resto, come scriveva David Maria Turoldo, “Ogni mattina, quando si leva il sole, inizia un giorno che non ha mai vissuto nessuno”.
13 marzo 2020
Maurizio Padovano, insegnante di Lettere presso il Liceo G.D’Alessandro di Bagheria