1850
Durante quell’inizio degli anni ’50 numerosi furono i fatti delittuosi che si verificarono a Bagheria. I misfatti, in un contesto che vedeva trascurata l’amministrazione della giustizia e inesistente il rispetto della legge, non potevano che prosperare. Il primo a non brillare per impegno era infatti il giudice regio circondariale, l’ammazzaistruttorie don Emanuele Cicala. Egli, attratto dalla vita mondana della capitale dove preferiva stare, lasciava languire le pratiche di giustizia. Pare addirittura che un sacerdote, al quale erano stati rubati otto quintali di olio, non avesse potuto denunciare quel furto per la prolungata assenza del Cicala. I furti pertanto si susseguivano e i ladri restavano impuniti. I 14 rondieri, che dal giudice dipendevano, non erano da meno.
Trascuravano a tal punto il loro servizio da spingere don Luigi Castronovo, notaio e, a quel tempo, sindaco, a minacciare di lasciarli senza stipendio. Ma c’era di più se è vero che uno dei rondieri lo si scoprì responsabile dello scasso e del furto in un magazzino. Tutori della legge e, al contempo, delinquenti? Se il sindaco si lamentava dei rondieri, ai quali era obbligato a corrispondere 2 tarì e 60 grana al giorno più l’olio (per illuminare il cammino durante la perlustrazione notturna) e il carbone (per riscaldarsi) ricorrendo al ricavato della iniqua tassa sul consumo per famiglia del vino, il capo della polizia borbonica, don Salvatore Maniscalco, non poteva non lagnarsi dei 10 soldati alle dipendenze di Giuseppe Scordato, capitano della Compagnia d’Armi, e di quest’ultimo. A costui inviò più di una lettera di rimprovero.
In una di queste Bagheria viene descritta come una sorta di Far West perché,oltre ai continui furti, “si uccide, si ferisce in pieno giorno, si tirano fucilate, si recidono di notte piante fruttifere”. (1) Bagheria è un paese spaventato. Giuseppe Scordato non mostra alcun impegno, è l’indifferenza fatta persona, magari ( ennesima metamorfosi ) è il principale responsabile di questa situazione. (2) Intanto, tra rondieri e compagni d’armi, cioè tra i corpi che dovevano assicurare la tranquillità pubblica, pare ci siano rapporti conflittuali. La notte del 21 novembre 1850 un ispettore perquisisce le case di 5 compagni d’armi alla ricerca di refurtiva. E poiché ogni perquisizione doveva essere autorizzata dal giudice, era dall’ambiente del giudicato (dal capo dei rondieri?) che la faccenda partiva. Giuseppe Scordato era furente per quello che considerava un attentato al suo prestigio e, visto che non era stato rinvenuto alcun oggetto rubato ( ma si disse che la refurtiva era stata fatta scomparire prima della perquisizione ), voleva e chiedeva soddisfazione. Il cav. Maniscalco non gliela diede. Deciderà di vendicarsi? Sta di fatto che…
1851
La notte del 15 aprile, mentre a piedi tornava, assieme ad un suo sottoposto, dalla vicina Santa Flavia dove era stato per servizio, don Giuseppe Manfrè, cinquantaquattrenne capo dei rondieri, veniva colpito a morte. Gli assassini avevano sparato da un ulivo oltre un muro che separava l’albero dalla via dandosi poi alla fuga e lasciando frastornato l’altro rondiere rimasto incolume.
All’assassinio seguì, poco tempo dopo, il taglio delle viti di un piccolo podere appartenente alla famiglia della vittima. Non poteva che essere un avvertimento affinché nessuno parlasse. Si capì subito che né il Cicala né lo Scordato erano in grado di portare avanti quell’indagine. Il caso venne perciò affidato a un giudice di Santa Cristina al quale il 26 aprile fu ordinato di recarsi immediatamente a Bagheria. Passerà più di un anno prima che si scopra il responsabile del delitto, verranno arrestate persone innocenti (almeno di quell’assassinio), si verificheranno intanto altri gravi fatti. Per esempio l’uccisione di Melchiorre Chiarello, ex rondiere, a distanza di soli 45 giorni da quella del Manfrè. E’ infatti il 30 maggio quando il cadavere viene trovato in una sua proprietà in contrada Fonditore. Era in una pozza di sangue sgorgato da una ferita d’arma da fuoco che lo aveva colpito in corrispondenza della articolazione scapolo-omerale di sinistra. Il giudice Cicala alzò l’ingegno. Suppose che a sparare era stato un ladro di albicocche colto in fragrante.
Non passano che due settimane e, con tre fucilate, rimane gravemente ferito alle reni, nella trazzera di Villarosa, un certo Giuseppe Gaipa (il testimone del delitto Buttitta ?), guardiano di campi.
Al momento della sparatoria si trovava in compagnia di un suo cugino e di un certo Giuseppe Maggiore, latitante e ricercatissimo (?) Secondo la voce pubblica le tre fucilate erano dirette a quest’ultimo e non al ferito. E ci sarà ancora un delitto, avverrà il 12 luglio, a farne le spese sarà un certo Giuseppe Sparacino, ad ucciderlo “in pieno giorno e alla presenza di un numero sterminato di persone” , (3) quel Giuseppe Maggiore di cui sopra. Ma verrà accusato, insieme ad altri, del delitto Manfrè e arrestato la sera del 31 luglio dai rondieri. Non c’entrava ma in prigione ci restò per altri due anni e dopo, per volontà del Maniscalco , venne “confinato” ad Ustica da dove, ancora nel ’56, chiedeva di essere liberato. Torniamo al 1851. In agosto, all’Accia, alcuni contadini vengono aggrediti e derubati mentre sono al lavoro. Derubati di che? Povere cose: pochi tarì, indumenti vecchi, le loro zappe. In ottobre una analoga aggressione avvenne in contrada Compagnone.
La misura era colma. Giuseppe Scordato venne sospeso dal servizio. Ma la misura era colma anche per i soprusi e per gli illeciti commessi dalla Compagnia d’armi. Al cav. Maniscalco, dopo i continui rimbrotti, dopo il periodo di sospensione dal servizio, non restò che mandarne in galera il capitano. La cosa avvenne il 2 agosto del 1852. Le porte del Castello a mare si spalancarono anche per Giuseppe Scordato. E ora che si trovava in prigione molte bocche, prima cucite, s’aprirono e molte lingue si sciolsero. E venne indicato come il vero responsabile del delitto Manfrè.
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1- Nicola Previteri, Verso l’Unità, gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria, Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Bagheria, Bagheria 2001, p. 42.
2- La Compagnia d’Armi, per regolamento, doveva risarcire i derubati del valore degli oggetti o degli animali sottratti. Nicola Previteri ( op. cit., pp.136-37 ) riporta una lettera inviata da Giuseppe Scordato al suo capo, il cav. Salvatore Maniscalco. In essa il capitano d’armi si lamenta dell’abitudine dei derubati di aumentare il valore di quanto gli viene sottratto specie quando si tratta di giumente che, sempre, risultano gravide di uno stallone. Per quel regolamento, di cui Giuseppe Scordato chiede una revisione , “il coinvolgimento della forza pubblica in attività delinquenziali era una prassi…La loro posizione nel network delle relazioni tra istituzioni, proprietari e malviventi variava da caso a caso e in molte circostanze c’era il sospetto che fossero essi ad attuare o a minacciare i reati”. ( Salvatore Lupo, Storia della mafia, Donzelli Editore, Roma 2004, p. 82 )
3-Nicola Previteri, op. cit., p. 107.
Biagio Napoli, Luglio 2012