Cultura

Nell’aprile del 1852 nasce un comitato, presieduto dal sindaco don Luigi Castronovo, il cui progetto è dar vita ad una banda musicale. Messo a conoscenza dell’iniziativa, il cav. Salvatore Maniscalco, approvandola incondizionatamente, scrive: “Orfeo colla musica ingentilì gli animi feroci degli uomini primitivi. Possa la banda musicale che va a comporsi a Bagheria produrre un simile prodigio fra quella rea gente”. (1)

In effetti, nel versante dei misfatti, s’ebbe a Bagheria, per qualche anno, una certa schiarita; non certo però per effetto della musica, come il capo della polizia borbonica si era augurato. A fine maggio l’assenteista Emanuele Cicala era stato finalmente sostituito e Giuseppe Scordato, pochi  mesi dopo, come già sappiamo, aveva perduto il suo potere.

Ecco il giudizio che di quest’ultimo dà Nicola Previteri: “Lui, l’incontrastato capo della banda, che fece un boccone del presidio militare borbonico di Bagheria, non poteva non costituire il punto di arrivo e di partenza di ogni atto delittuoso; lui, il capo dello squadrone campestre prima e della compagnia d’armi dopo, non poteva non conoscere i “tristi” uno ad uno ed ignorarne i “pravi” disegni. Con quel passato e con quel “pitigrì” familiare Giuseppe Scordato invece, di ogni violenza praticata nel territorio di Bagheria conosceva anche le più sottili radici”. (2) E ancora: “…I documenti rappresentano Bagheria dominata da questa figura dispotica a cui, oggi, non è difficile attribuire la fisionomia del mafioso. (3)

Che la diminuzione degli atti delittuosi fosse dovuta ad un miglioramento nell’amministrazione della giustizia e nella difesa della legge e non, invece, all’ingentilirsi degli animi bagheresi dovuto alla musica, è provato dal fatto che, semplicemente, di banda musicale non se ne parlò fino al luglio del 1857. A suo tempo, infatti, le autorità palermitane non autorizzarono la spesa per gli strumenti musicali e solo cinque anni dopo, col nuovo sindaco, don Francesco Farina, un nuovo comitato, la contribuzione volontaria ( questa sì approvata a Palermo ) dei trentasei elementi della banda per l’acquisto degli strumenti, solo allora Bagheria ebbe quella banda. Il primo concerto, dato in abiti borghesi ( occorrevano sessanta ducati per le divise e non c’erano ), nel parterre del municipio, l’ultimo di luglio compleanno di S.M. la Regina, ebbe grande successo. Con i problemi riguardanti la mancanza di una divisa che si trascinarono per molti mesi, quella banda non ebbe comunque vita lunga. Richiesta la sua presenza al campo di Gibilrossa da Giuseppe La Masa, a quest’ultimo il Comitato rispose: “…Poiché alcuni musicanti trovansi ammalati ed alcuni  allontanati dal paese,…il numero per la musica non trovasi completo e capace di poter suonare”.(4) 

Quella risposta nascondeva però le gravi tensioni politiche di quel momento; siamo infatti nelmaggio (è il 24) del 1860 con Garibaldi già sbarcato nell’isola e in procinto di attaccare Palermo. L’anno prima però…

alt1859.

Il 9 di ottobre doveva verificarsi una insurrezione antiborbonica. Ecco come: “All’alba di quel giorno, una squadra, dopo avere inalberato a Bagheria la bandiera tricolore, e disarmato la poca forza pubblica, raccogliendo via via altri uomini armati a Misilmeri e a Villabate, sarebbe scesa a Palermo; ed allora, al rumore di alcune fucilate verso la porta di Sant’Antonino, i cospiratori della città sarebbero corsi alle armi, e con l’aiuto delle bombe e delle squadre avrebbero attaccato la truppa, e la rivoluzione si sarebbe compiuta”. (5)

Si tornava cioè “ad un vecchio progetto, quello di sollevare le campagne vicine e di piombarein città…le squadre sarebbero discese in 4 colonne, poggiantesi l’una sull’altra, 100 uomini ciascuna…giunte le bande armate si sarebbero unite al ponte dell’Ammiraglio in una sola colonna…”. (6)

Ma le cose non furono così semplici. La sera dell’8 di ottobre, vigilia della rivolta, a Bagheria, invece dei 100 uomini che dovevano raccogliersi, se ne riunirono tanti quanti se ne potevano  contare con le dita di una mano. Si rimandò allora l’insurrezione alla notte tra il 10 e l’11. Pare che il luogo d’incontro dei cospiratori si trovasse in una casa sulla litoranea, nei pressi di capo Zafferano. Stavolta, cioè la sera del 10, gli uomini erano una trentina; si divisero in due  gruppi partendo, uno alla volta di Aspra, l’altro alla volta di Porticello e Santa Flavia; là dovevano procurarsi armi e munizioni attaccando, ad Aspra l’antro doganale, a Porticello e Santa Flavia la Guardia Urbana. Fu quanto avvenne e i due gruppi, ancora una volta, si riunirono a capo Zafferano per raggiungere, insieme, Palermo. Ma una spia informò il cav. Maniscalco che inviò alla ricerca dei rivoltosi diciotto compagni d’armi, dodici gendarmi, trentadue guardie di polizia.

Con soli sessantadue uomini, senza alcun impegno militare, l’insurrezione fu fermata a Villabate dove i rivoltosi furono costretti a disperdersi, “lasciando sul campo un ferito, Antonino Billitteri, morto il giorno successivo”. (7)

Sappiamo chi fosse quella spia? In una lettera di Rosolino Pilo del 10 novembre 1859 all’amico Salvatore Calvino leggiamo: “L’11 ottobre, dietro denunzia del fratello di Scordato, il famoso ladro, la polizia cercò di disarmare i campagnuoli della Bagheria, Santa Flavia, Ficarazzi etc.ed una specie di insurrezione ha avuto luogo”. (8)

Il delatore era Baldassarre Scordato, il fratello minore di Giuseppe, costui essendo il “famoso ladro”? Il Pilo si riferiva a Giovan Battista Scordato, confondendolo con Baldassarre, non sapendo che era già morto da parecchi anni? Si riferiva, semplicemente, a Giuseppe? La confusione tra i  fratelli Scordato è cosa sia recente che antica. Oreste Girgenti, ad esempio, confonde Baldassarre 

con Giovan Battista quando, sul ’48, scrive: “Sanguinose battaglie .. si erano svolte nel fondo Accia Petrusa ove era rimasto ferito Giov. Battista Scordato”. (9) Ma la confusione antica è davvero curiosa. In Simoncini Scaglione, sempre a proposito del ’48, leggiamo: “…e, dalla Bagheria, scendeva Giuseppe Scordato, fratello di GiovanBattista che, sebbene morto, pur la voce popolare favoleggiava ancor vivo e celato per rivelarsi in tempo opportuno. Ora Giuseppe fu creduto GiovanBattista, e così dalla favola la rivoluzione acquistava maggior vigore”. (10)

La spia fu dunque uno Scordato e, poiché i morti non risuscitano, sarà stato Baldassarre? Giuseppe uscito di prigione? Ma chi erano i capi di quella insurrezione improvvisata e non riuscita? Scrive Nino Morreale: “ Che ci fossero gli animi disposti a rapidi sommovimenti è cosa certa. Il 12 ottobre 1859 Castelcicala al Ministro Segretario di Stato per gli affari di Sicilia scrive: “In Bagheria, paese abitato da gente ribalda che in tutti i tempi ha apprestato a Palermo il miglior nerbo degli uomini d’azione, un tal Giuseppe Mastricchi ( Campo ), veduto mancare il colpo preparato per il mattino del 9, pensò di concitare gli animi di circa una cinquantina di abitanti di quella terra, dicendo loro che se fossero animosi a lanciarsi sopra Palermo, la rivoluzione si sarebbe di un subito compita avvegnachè nelle condizioni presenti nelle quali trovasi la Sicilia, egli diceva, bastava una scintilla per far divampare un grande incendio” (11) 

Ecco dunque uno dei cospiratori: Giuseppe Mastricchi ( Campo ). Ma, un uomo con questo nome (l’errore era nel Castelcicala?), in realtà, non esisteva trattandosi invece, secondo Nicola Previteri, di Giovanni Mastricchi, (12) fratello di Pasquale, più grande d’età quest’ultimo, che, insieme a Giuseppe La Masa e a Vincenzo Fuxa, sarebbe accorso al campo di Gibilrossa, combattendo poi la battaglia del ponte dell’Ammiraglio. Anche Pasquale Mastricchi, con proprietà ed una abitazione a Bagheria, era uno dei rivoltosi dell’ottobre 1859; ad organizzare ( male ) quella insurrezione erano stati però Giuseppe Campo, palermitano con proprietà a Bagheria, e Francesco Gandolfo, suo castaldo. Antiborbonici di lungo corso, i quattro si erano già distinti in molte imprese della rivoluzione del ’48, (13) e dopo, nel decennio successivo, avevano avuto più di un contatto con cospiratori meno fortunati come Nicolò Garzilli, Francesco Bentivegna, Salvatore Spinuzza.(14)

Pare che Francesco Gandolfo avesse una proprietà nei pressi di capo Zafferano, alla Vignazza; è perciò probabile che i rivoluzionari si fossero riuniti lì prima di recarsi lungo la costa da un lato e dall’altro ad assaltare i paesetti dove la litoranea iniziava. Nel fare questo uccisero due uomini. Pare che uno si fosse rifiutato di seguirli, mentre l’altro non volle consegnare il fucile in dotazione. Quest’ultimo si chiamava Giuseppe Scordato, cugino forse dello Scordato ben più  famoso e col quale venne confuso da Denis Mack Smith. (15) Scrive Nicola Previteri: “…Due vittime, quindi, di cui quel primo vagito rivoluzionario avrebbe potuto fare a meno”. (16)

alt1860

Un altro misfatto della rivoluzione è raccontato da un testimone di fede borbonica. Bisogna credergli? Leggiamo: “ 5 aprile. Due compagnie del 4° di linea a Bagheria aggredite da forze maggiori dei rivoltosi si ritirano nella casina Inguaggiato, dove, sebbene senza provvisioni, si sostengono valorosamente. Venerdì 6 aprile. Per liberare le surriferite due compagnie assediate in Bagheria, interamente digiune da due giorni, vi accorre oggi alle due pomeridiane il generale Sury con quattro compagnie del 4° di linea, e due del decimo, con mezza batteria a trascino n. 10, e con mezzo squadrone cacciatori a cavallo; …i cronisti favorevoli alla rivoluzione…riportano come un tratto spiritoso e faceto un atroce incidente: all’avvicinarsi delle truppe di Sury, gli insorti di Bagheria mettono ligata in piazza una guardia di polizia, che già ritenevano prigione, e la costringono a starsene ivi ferma col vessillo tricolore inalberato fra le mani: così rimane bersaglio ai colpi involontari delle dette truppe, che nell’impeto dell’assalto credono quello infelice uno dei rivoltosi”. (17) 

A parte le date ( la casina Inguaggiato subirà, fino all’otto aprile, un assedio di tre giorni ), i soldati borbonici erano veramente, e ovviamente, alla fame. Infatti, il mattino del sei aprile, come scrive Nicola Previteri “supponendo che la notte avesse calmato i furori popolari, gli addetti militari al vettovagliamento di palazzo Inguaggiato, come d’abitudine, uscirono per le spese, ma, a piazza Madrice, uomini in armi li costrinsero a riparare immediatamente nella casina”. (18) E scrive ancora: “…Dopo due giorni ( il sette e l’otto aprile ) di assedio, tra i soldati si diffuse la fame. Per sedarla tornarono utili prima due caprette colte a pascolare nel recinto retrostante la casina e poi il cavallo di un compagno d’arme postosi sotto tutela militare”. (19)

L’arrivo del Surry con i suoi duemila uomini risolse naturalmente ogni problema disperdendo i rivoltosi nelle campagne. Nell’operazione repressiva del generale borbonico, “rientra anche l’episodio, il più significativo per autentico spirito patriottico accaduto a Bagheria nella rivolu- zione del ’60, che portò Andrea Coffaro e il di lui figlio Giuseppe al sacrificio supremo della vita”. (20) 

Così Nicola Previteri ma, ovviamente, Nino Morreale non può non dare un giudizio differente, quando commenta “l’episodio, difficilmente decifrabile, che vide coinvolti Andrea e Giuseppe Coffaro, padre e figlio. Questi, nell’aprile del’60, improvvisarono nel contesto di scaramucce e saccheggi di cui si rese protagonista una colonna borbonica, una resistenza che finì tragicamente con la morte di Giuseppe e l’arresto e la condanna a morte di Andrea. Come si può interpretare questo episodio al di fuori di ogni retorica risorgimentale e in assenza di altri apporti documentari? Quel che sappiamo è che i Coffaro sono una famiglia di “castaldi”, vivaio fertile di quella borghesia mafiosa che tanta parte ha avuto nella storia del nostro territorio”. (21)

La problematicità dei comportamenti di taluni protagonisti di quegli anni viene estesa da Nino Morreale anche, ed è naturale, a Giuseppe Scordato, che dovrebbe considerarsi il  vero uomo per tutte le stagioni con, al fondo dei suoi comportamenti, la forte coerenza dell’esclu- sivo interesse personale. Scrive dunque il Morreale: “Dalle vicende risorgimentali a partire dalla rivoluzione del ’48 al 1860 molte scorie andranno eliminate, molti giudizi rettificati e non solo quelli relativi ad eroiche figure quali Miceli e Scordato che partecipano al ’48, vengono fatti colonnelli, nel ’49 tradiscono, e nel 1860 sono con Garibaldi” (22)

Sapevamo lo Scordato ospite del Castelloamare; non sappiamo quando ne sia uscito né se sia coinvolto in quella delazione sui fatti dell’ottobre 1859. All’arrivo dei Mille cambia dunque ancora  una volta casacca pur non compiendo, per quello che ne sappiamo, gli eroismi del ’48. Magari si è limitato a salvaguardare gli interessi di un qualche barone, del barone Riso, ad esempio, che aveva accompagnato nel ’49 a patteggiare con Carlo Filangeri, principe di Satriano, la resa di Palermo. 

Note.

1)Nicola Previteri, Verso l’unità, gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria, Assessorato ai Beni Culturali del Comune di Bagheria, Bagheria 2001, p. 125.

2)Ivi, p. 41.

3)Ivi, p. 139.

4)Ivi, nota n. 179 bis, pp. 293-294.

5)Raffaele De Cesare, La fine di un regno, parte II, 1900, full text on line, p.154.

6)Giovanni Simoncini Scaglione, Dal 48 al 60, Ricordi storici, 1890, full text on line, p. 73.

7)Nicola Previteri, op. cit., p. 250.

8)Giacomo Emilio Curàtulo, Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour nei fasti della patria, 1911, full text on line, p. 52.

9)Oreste Girgenti, Bagheria, Origini e sua evoluzione, Edizioni Soleus, Bagheria 1985, p. 196.

10)Giovanni Simoncini Scaglione, op. cit., p. 31.

11)Antonino Morreale, La vite e il leone, storia della Bagaria, Editrice Tiranna, Palermo 1998, p. 396.

12)Nicola Previteri, op. cit., p. 248.

13)Giovanni Simoncini Scaglione, op. cit., pp. 34-38.

14)Verranno fucilati ( come si scriveva allora “moschettati” ), in seguito al fallimento delle rivolte antiborboniche da loro organizzate, il primo, appena ventenne, nel gennaio del 1850, a Palermo, il secondo, trentaseienne, nel dicembre del 1856, a Mezzojuso ( ma era di Corleone), il terzo, ventottenne, nel marzo del 1857, a Cefalù. Salvatore Spinuzza, con Vincenzo Consolo e il suo Il sorriso dell’ignoto marinaio, diventa personaggio letterario colto in un momento di particolare fragilità: “Da porta d’Ossuna, in quel momento, s’udirono venire colpi di schioppo e abbaiar di cani. Era la ronda che di questi tempi sparava la notte a ogni ombra che vagava fuori le mura. Lo Spinuzza sentì un brivido salirgli per la schiena e si fece inquieto”. ( Mondatori, Milano 1997, p. 31 )

15)Lo storico inglese farà arrabbiare Oreste Girgenti avendo scritto come Giuseppe Scordato si  fosse arricchito svolgendo, per il governo borbonico restaurato, il compito di esattore guardacoste nel litorale Aspra-Capo Zafferano; e ciò perché nessuno dei discendenti aveva ereditato fortune. In realtà il destino di Giuseppe Scordato era quello di essere confuso con altri, ora con il fratello Giovan Battista, per quanto morto, ora con il cugino ( ? ) omonimo, questo sì guardacoste. ( Oreste Girgenti, op. cit., pp.197-198; Nicola Previteri, op. cit., pp. 36-37 e nota n. 111 p. 292 ).

16)Nicola Previteri, op. cit., p. 249.

17)Cronaca degli avvenimenti di Sicilia da 4 aprile a’ principii d’agosto 1860 con l’aggiunta dei fatti posteriori fino a marzo 1861, 1863, full text on line, pp. 13-14.

18)Nicola Previteri, op. cit., p. 271.

19)Ivi, p. 272.

20)Ibidem.

21)Antonino Morreale, op. cit., pp.396-398.

22)Ivi, pp.395-396.


Agosto 2012  Biagio Napoli
 

Ho fatto un sogno...

Leggendo Coelho mi sono assopito e ho fatto un sogno. Nel sogno vedevo un grandissimo tempio con tre guglie e tanti campanili, sommerso in fondo al mare. Tutto il tempio era adornato con pannelli fantastici ed era abitato da creature bellissime e dai colori incantevoli, magicamente dipinto dalla luce che filtrava dalla volta d'acqua azzurra. Un eden di meraviglie e di stupore.

La più alta delle guglie appariva appena in superficie come una grande formica e molti uomini che indossavano vestiti senza tasche, con l'aspetto di guerrieri della luce, si immergevano in quelle acque per gioire di tanta bellezza, a guardia di quel mondo che indifeso rischiava di essere distrutto dall'ignoranza e dalla cattiveria degli uomini. Ad un tratto dalla terza guglia esplodeva un suono come di campane a festa che solo i guerrieri della luce potevano udire. Una Signora bellissima con un manto azzurro era apparsa in una grotta e a mani giunte accoglieva questa preghiera:

altAve Maria, madre dei cieli e degli abissi, purifica queste acque, proteggi la bellezza di questi luoghi e delle creature che qui vivono.

Madre del Divino Lume, sorridi benevola ai subacquei che a te vengono gioiosi e dona loro felicità e amore.
Custodisci i silenzi, i colori, i prodigi e le magìe di questo eden ritrovato.
Madonna del tempio sommerso rigeneraci, in questo mare, come nel grembo di una madre e fa che da queste azzurrità riemergano uomini migliori.

nt

"Il guerriero della Luce crede.Poichè crede nei miracoli, i miracoli cominciano ad accadere." (P.C.)

Attualmente una statuetta raffigurante la Madonna è visibile a tutti i subacquei idonei all'immersione a quota -19.50 del terzo scoglio formica di Porticello.
 

 

 

 la foto subacquea è di Alessandro Licata

Emiliano Morreale, 39 anni, bagherese, laurea in Filosofia alla Normale di Pisa con il massimo dei voti, critico letterario e cinematografico, collaboratore di alcune tra le più importanti testate nazionali su argomenti appunto di cinema e letteratura.Vive con la famiglia a Roma ed ha un bambino, Francesco, di 7 anni.

Partiamo dalla fine: il 29 di agosto si apre il Festival del cinema di Venezia, per la prima volta nella storia del Festival, un bagherese, anzi un siciliano, ha fatto parte della Commissione  di cinque membri presieduta da Alberto Barbera che ha selezionato i 48 film che parteciperanno alle tre sezioni della Mostra
Un incarico prestigioso e di grande responsabilità: come si arriva a questa nomina , e soprattutto, con quale spirito l’hai accolta?

Naturalmente la scelta mi ha lusingato. Avevo già collaborato col direttore Barbera, e avevo già lavorato come selezionatore al festival di Torino, sotto la direzione di Nanni Moretti e poi di Gianni Amelio. E’ stata comunque una fatica tremenda, perché nel giro di pochi mesi tra cortometraggi, opere prime e film abbiamo visionato circa 1400 opere.


Torniamo per un momento indietro: se vogliamo tu hai respirato da sempre l’aria del Continente: sei nato a Palermo, ma i primi anni della tua vita li hai trascorso a Treviso, dove insegnavano i tuoi genitori, quindi ritorno a Bagheria, studi medi al Liceo Scientifico “G.D’Alessandro”, studi universitari alla Normale di Pisa, e subito dopo la laurea vai a lavorare a Roma.

Sì è vero: mi ha aiutato anche nelle scelte di lavoro e di interessi successive alla laurea, la conoscenza di ambienti diversi, non solo geograficamente, anche se ovviamente alcuni anni decisivi li ho trascorsi a Bagheria, dove ritorno spesso e volentieri a trovare amici e familiari.


Si suole dire "nemo propheta in patria": ora al di là delle facili battute, per svolgere l’attività che svolgi anche Palermo ti sarebbe stata troppo stretta?

A Palermo il lavoro che faccio sarebbe stato non difficile ma impossibile; noto peraltro ogni volta che rimetto piede nella nostra isola, che la decadenza che è socio-economica-politica, ma anche culturale, appare inarrestabile.
La Palermo di venti anni fa invece rappresentò una vera fucina di esperimenti culturali nel teatro e nel cinema.


Il tuo incontro con Goffredo Fofi, il fondatore dei Quaderni Piacentini, grande esperto e conoscitore di cinema cosa ha rappresentato per te umanamente e professionalmente.

L’incontro con Fofi ed i rapporti che si sono successivamente instaurati sono stati fondamentali.
Da lui sono arrivati e continuano ad arrivare una quantità enorme di suggerimenti, stimoli, contatti, sui quali ho costruito buona parte del mio lavoro e della mia formazione in maniera abbastanza anti-accademica.


Tu hai fatto anche qualche esperienza adolescenziale di spettacolo tv qua a Bagheria: che ricordo hai di quegli anni.

Li ricordo con grande piacere; in quel momento anche nelle televisioni più periferiche come Tvotto o Teleone i giovani tentavano linguaggi nuovi, e soprattutto ci si divertiva. Di quel periodo ricordo Dominique La Bianca, bravissimo, purtroppo prematuramente scomparso, i fratelli Maurilio e Orio Scaduto che sono diventati attori di nome, Dario Palermo che ora fa video girando mezzo mondo.


L’ambiente familiare culturalmente stimolante ha ovviamente influito sulla tua formazione umana e culturale

Sì certo , e non solo perché sin da piccolissimo ero abituato a vivere dentro la biblioteca paterna, allora per me monumentale, ma anche per le persone che frequentavano la nostra casa, non grandi intellettuali o grandi artisti, ma spiriti liberi e curiosi a modo loro portatori di una cultura locale originale. Ci tengo a ricordarne due, perché sono scomparsi da poco tempo: Michele Toia e Lillo Rizzo.

Dagli studi filosofici e letterari all’interesse per il cinema: il passo è lungo o breve?

In realtà brevissimo, anzi una delle mode più recenti è quella dei filosofi che si occupano di cinema. C’è da dire che mi sono anzi trovato agevolato a non studiare cinema all’università, perché così mi sono ritrovato con delle solide basi teoriche su cui poi costruire il resto. Mentre chi si è trovato all’epoca a fare degli studi di cinema più specialistici, poi si è trovato a doversi rifare da solo le basi. Insomma: passare dalla filosofia al cinema è facile, il contrario forse un po' meno.

I film più interessanti a questa mostra del cinema di Venezia

Tra gli italiani "E' stato il figlio" di Daniele Ciprì e "la Bella addormentata" di Marco Bellocchio; tra gli stranieri i nuovi film di Terrence Malick, Paul Thomas Anderson e Bria De Palma; e parecchi degli emergenti nella sezione Orizzonti

Preferisci recensire un film o un libro?

Recensire un libro è più facile, perché in qualche modo la recensione e il libro sono fatti tutti e due di parole. Descrivere un’immagine attraverso la parola scritta è sempre una difficoltà supplementare, perché il cinema non è solo racconto. Un po’ come la critica d’arte, che mi sembra una disciplina difficilissima!

A quali giornali e periodici collabori?

“La Repubblica” con il suo supplemento del “Venerdì” (e l’edizione locale di Palermo); e “Il Sole- 24 ore”. Come mensili, “Lo straniero”, diretta da Fofi, e “Cineforum”, più alcune riviste universitarie. In Francia, collaboro ogni tanto ai “Cahiers du cinéma”.

Hai già scritto diversi libri sul cinema, ed uno in particolare sui giovani registi siciliani. Come definiresti oggi lo stato di salute del cinema in Sicilia e in Italia?

Sì, come dicevo all’inizio, Palermo 15-20 anni fa era una ambiente molto fertile di talenti: penso a Ciprì e Maresco, Roberta Torre, Roberto Andò, Aurelio Grimaldi, Francesco Calogero a Messina; ma anche l’esperienza teatrale di Carlo Cecchi al teatro Garibaldi, fino alla scoperta di Emma Dante. Da una dcina d’anni, non c’è più ricambio generazionale. Mi sembra che quel che c’è sia ancora figlio di quelle esperienze lì, di quell’epoca.


A cosa stai lavorando?

Dopo Natale dovrebbe uscire un mio libro sul cinema e la mafia.
 

Pubblichiamo un articolo inedito scritto da Giusi Buttitta un paio d'anni fa per la presentazione d'una mostra (mai realizzata) dell'artista Bartolomeo Maria "Lillo" Rizzo.

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Artista. E’ questa la definizione ultima da attribuire a Lillo Rizzo, dopo aver osservato le sue opere, dopo aver scavato nella sua biografia. Semplicemente - o se si vuole, definitivamente -artista. Un caso tutt’altro che frequente, dove l’opera richiama un modo di intendere l’arte che sottintende un approccio assoluto, privo di compromessi. Verrebbe da dire: puro.

L’arte di Lillo Rizzo è un’arte che non si fa mai artigianato, che non flirta con i gusti del pubblico, che non accondiscende, che rifiuta ogni compromesso con il mercato, che non si pone la questione dell’essere compresi e popolari. La produzione artistica di Lillo Rizzo è rigida e si confronta soltanto con la vena espressiva dell’artista.

Un dissidente non disponibile a piegarsi alle logiche di mercato che sottopongono l’arte alle stesse leggi di una produzione tout-court. In questo senso,impressiona la definizione che Rizzo, riferendosi al movimento siciliano, da delle gallerie d’arte, definendole “putie” (piccoli negozi di alimentari e mercanzie varie), colpisce, e rassicura, questo sano, ed oggi inusuale, disprezzo per il mercato, non tanto sotto l’aspetto ideologico o di principio, quanto sotto l’aspetto dell’integrità, si è certi che quello che mostrano i quadri di Lillo Rizzo è pura arte, e basta, intendendo con ciò la necessità espressiva, l’assecondare una pulsione creativa senza dover fare i conti con altro, nemmeno col messaggio.
Lo stesso artista ebbe modo di affermare “non ho la pretesa di raccontare nulla, meno ancora di spiegare qualcosa” e in questa essenzialità dell’arte che è, che si attesta senza nessun altra ricerca.

E’ questo che rende unica l’arte di Lillo Rizzo.

Ogni artista trova sempre nelle sue origini, nei suoi percorsi, degli episodi che ne preannunciano il compimento. Rizzo non sfugge a questa regola, sino a far pensare che artista, nel suo caso, si nasce.

Nato nel 1949 a Santa Flavia (Pa), Rizzo trascorre la sua fanciullezza nella cornice, allora incantata, dell’Olivella, località flavese in riva al mare, ed in questo contesto tra mare, canneti ed agrumeti, comincia a coltivare la sua passione per il disegno, per i colori. Ma l’infanzia di Rizzo è un’infanzia segnata da peregrinazioni, spostamenti, frequenti traslochi, luoghi di passaggio in procinto di abbandono.

Nel 1968, conseguito il Diploma al Liceo Artistico di Palermo, si iscrive all’Accademia delle Belle Arti, in questi anni subisce il fascino di artisti come Otto Dix, James Ensor, Barbieri (detto il Guercino).

Sono gli anni delle sue prime produzioni, una serie di dipinti dal titolo “gli specchi”, tele dipinte su fondo argento caratterizzate da molte lumeggiature che funzionano come riflessi speculari, e un’altra serie di dipinti dal titolo “uccisori di colombe e uccisori di farfalle”.

Conseguito il diploma nel 1972, di lì a poco dipingerà la serie “Letti”, questa serie di dipinti ha nel percorso artistico di Rizzo una valenza particolare, essa infatti rappresenta il momento di distacco da una pittura fatta di figuralità neo gestuale ad una pittura talmente realistica da risultare “astratta”.

I letti, disfatti, sono rappresentati nel loro crudo realismo utilizzando un algido bianco e nero con piccole zone di colore (uno dei quadri della serie “letti del Cardinale” è oggi esposto al Museo di Gibellina).

Ma il percorso artistico di Lillo Rizzo è fatto anche di eclissi, di esili volontari, di assenze prolungate figlie di una difficoltà di comunicazione con gli operatori, con quelli che agli occhi di Rizzo sono i “mercanti” d’arte, nell’accezione più dispregiativa, portatori di uno squallore culturale, nonché di un’incapacità di fornire un reale supporto agli artisti nell’operazione di proposizione della produzione artistica di questi.

Rizzo avverte fortemente questo disagio e ciò lo porta ad una scelta di silenzi lunga cinque anni.

Ma la disillusione e l’amarezza legate all’esperienza all’interno del “circuito” artistico, non compromettono – di certo – la produzione artistica di Rizzo, il quale continua a dipingere sperimentando nuove tecniche e modalità espressive, approfondendo gli studi, in particolare, su i lavori di Gastone Novelli, Rauschenberg e Twombly.

Gli anni del silenzio, sono anni molto fecondi e portatori di novità tecnico/stilistiche, proprio in questi anni l’artista comincia ad adoperare le carte fotosensibili e le carte eliografiche e le trasforma come supporto base delle sue opere d’arte.

In questi anni incontra la giovane imprenditrice bagherese Enza La Tona che colpita dalle opere dell’artista e comprendendo il travaglio interiore che lo attraversa, lo aiuta supportandolo sia da un punto dal punto di vista economico che da quello logistico.

Impara a riprodurre per ammonizzazione, adattando questa tecnica a scopi pittorici; interviene successivamente sui supporti cartacei con le sue tecniche miste a cartapesta ribassata.
Sperimenta per anni l’uso compatibile di colle viniliche diluite pervenendo infine al definitivo utilizzo di quelle acriliche.

L’esperienza di Lillo Rizzo, non è comunque, quella dell’artista isolato, si interessa sia alla vita politica, sia alla vita culturale collaborando assieme a Giuseppe Tornatore alla nascita del circolo culturale “L’Incontro” di Bagheria, che rappresentò in quegli anni un baluardo culturale all’interno di una terra oppressa dalla presenza oscura e minacciosa della mafia e del malaffare politico.

Pur ritornando a partecipare in maniera sporadica e saltuaria a delle mostre collettive, Rizzo rimane un artista poco incline a gestire il suo rapporto con l’establishment e con l’ambiente artistico in genere, causa del suo carattere schivo e scontroso che lo porta all’assenza, un carattere che se da un lato può rappresentare un suo limite dall’altro rappresenta un suo punto di forza, la forza dell’artista che non piega la sua arte a nessun potere, producendo l’arte che sovverte e non quella che si piega (che dell’arte ha solo l’apparenza).

La produzione artistica di Rizzo è un crocevia dove si intersecano le radici arabe testimoniate da una decorazione dal sapore islamico che spesso aleggia nelle sue opere, unita a forti richiami alla pop-art e, in alcune produzioni, con tracce riconducibili alla lezione di Andy Wharol, sino ad arrivare a contaminazioni che giungono direttamente dal mondo del fumetto.

Osservando le opere di Lillo Rizzo sovviene alla mente una frase che recita: “l’amore migliore è quello che non ha futuro”.

L’amore di Rizzo per la sua arte - letto attraverso le sue opere - è un amore senza costruzione, senza percorso e, per questo, senza possibilità di consumarsi, di esaurirsi, di finire.
Un’arte che - pur affondando le sue radici in tanti passati e proiettandosi nella sperimentazione di tanti futuri - alla fine trasmette la forza di un opera che invade un eterno presente.

Nella foto di copertina un'opera di Lillo Rizzo


 

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