C'era un tempo la settimana santa: era quell'insieme di riti religiosi che nelle chiese si svolgevano durante questa settimana, ma era quell'insieme di tradizioni religiose e culinarie , la visita dei Sepolcri, i "pupi cull'ova", ma era soprattutto un clima,
un'atmosfera che avvolgeva il paese, che entrava in testa e condizionava la mente e la vita quotidiana della gente.
I riti, sia pure mutati, sono in parte rimasti; ma non c'è più, assolutamente per niente, quell'atmosfera.
Non si mangiava carne nel periodo della Quaresima: in effetti non è che se ne consumasse tanta al tempo, solo la domenica e non sempre.
I paramenti dei sacerdoti erano viola, al posto delle tradizionali campanelle che segnavano i momenti "topici" delle cerimonie religiose ( la consacrazione per esempio), si usava la "troccola" con il batacchio di legno, il cui suono sordo e cupo stava a significare il tempo del dolore e della tristezza.
Si cominciava con le Quarant'ore, tre giorni di esposizione del Cristo, di preghiere e di predicazioni, a ridosso del mercoledì delle ceneri.
Poi all'avvicinarsi della Settimana santa le prediche dei missionari, che tornavano dai paesi di missione, e di uno in particolare mi ricordo: si raccontava( e a noi bambini la cosa faceva un particolare impressione) che in Russia i comunisti gli avessero tagliato la lingua per impedirgli di diffondere la fede, parlava però dal pulpito della Madrice come un libro stampato.
E il giovedì santo la "lavata dei piedi": un rito simbolico che testimoniava la dedizione e l'umiltà del sacerdote rappresentante di Dio in terra; quest'ultimo lavava i piedi ad alcuni chierichetti e ad alcuni fedeli.
Naturalmente i piedi li avevamo già prima ben lavati, "stricati" e profumati e si provvedeva anche alle calze nuove, bianche ricordo ancora, e talvolta nuove anche le scarpe.
Il giovedì avveniva anche la consegna della "chiave" ad un fedele che si era particolarmente distinto per la sua vita pubblica e privata intemerata, e per l'attaccamento alla parrocchia.
Era una cerimonia in cui si affidava ad uno dei maggiorenti tra i fedeli della parrocchia, tra quelli di indiscusso prestigio e moralità oltre che tra i più abbienti, la cosidetta "chiave" che stava a significare che in quei giorni la cura simbolica della parrocchia veniva affidata a chi la chiave riceveva.
Ricordo che c'era ogni anno molto attesa per vedere e a chi veniva consegnata la chiave, e la cosa veniva poi variamente commentata, anche perché era una sorta di quotazione della influenza che il prescelto esercitava nella comunità dei fedeli.
Arrivava poi il venerdì santo, la giornata culmine, che io vivevo da chierichetto alla Chiesa del Sepolcro.
Si arrivava in chiesa già intorno alle tre del pomeriggio, dopo un pò le chiese erano stracolme e tanti portavano la sedia da casa.
Veniva intonato il canto mestissimo del Passio ( Passio domini nostri Iesu Christi secundum Matthaeum: in illo tempore dixit Iesus discipulis suis ......) così iniziava quella nenìa lentissima e struggente, cantata in latino che durava un paio d'ore, con canti e strofe a rimando, tra il narratore, Gesù, Barabba, Pilato ecc...interpretata da vari sacerdoti ed era una rappresentazione dei vari momenti della passione e morte di Gesù Cristo: il tradimento di Giuda, la traduzione e il giudizio davanti a Pilato, l'ascesa con la croce verso il Golgota sino alla fine ...(et reclinato capite emisit spiritum).
Poi la Via Crucis con le fermate alle quattordici "stazioni" raffigurate in dei quadretti esposte lungo le pareti laterali della chiesa.
Ed infine il rito della scopertura della croce del Cristo: "Ecce lignum crucis..."
Poi le processioni del Signore e della Madonna e il tradizionale incontro con relativa predica "o Palazzu", per antonomasia il palazzo dei Branciforte.
Si arrivava la sera stremati, ma le chiese tra il venerdì santo e il sabato restavano aperte l'intera nottata, perché i fedeli iniziavano il tradizionale giro delle visite dei Sepolcri che si perpetua ancora oggi nella mattinata del sabato; si faceva il giro delle sette chiese del tempo: Il Sepolcro, La Madrice, Le Anime Sante, Il Carmelo, San Pietro, e la chiesetta di Favazzi e quella del Collegio di Maria, insomma il giro delle sette chiese, espressione rimasta nel linguaggio corrente.
E il sabato la celebrazione conclusiva con la messa notturna della Pasqua di resurrezione.
La serata era fonte di grande eccitazione per i più piccoli, perchè si usciva alle dieci di sera e si rientrava dopo la mezzanotte ma la trepidante attesa era tutta per il momento di grande impatto scenografico della "calata ra tila", un telo enorme quasi nero che pendeva dal soffitto altissimo delle chiese, e veniva trattenuto da una serie di funi separando la zona dell'altare dallo spazio occupato dai fedeli.
I primi minuti della messa di notte si svolgevano pertanto con i celebranti e chierici celati alla vista dei fedeli, poi quando il celebrante intonava il canto gioioso del "Gloria in excelsis Deo" venivano mollate le funi che lo trattenevano al soffitto e quel telo gigantesco veniva giù sollevando una nuvola impressionante di polvere, tra il vocio festoso della gente mentre si accendevano tutte le luci della chiesa e le campane suonavano a festa.
Cinquanta, sessanta anni fa in una comunità relativamente piccola ed economicamente arretrata la partecipazione ai riti della Pasqua era un fenomeno corale, che coinvolgeva e scandiva i ritmi di vita della intera comunità.
Oggi non più.
Ma se avete voglia di ritrovare la suggestione dei riti della Pasqua , una partecipazione dei fedeli corale, devota e totale, e la vita di intere città che si ferma per vivere questi momenti, basta che partecipiate alla Settimana santa in Andalusia: a Siviglia, Cordova, Granada, Murcia, Huelva, ecc..
Fatelo almeno una volta nella vita e non ve ne pentirete.
Non è una idea solo mia, lo disse con più autorevolezza Leonardo Sciascia, autore assieme a Ferdinando Scianna che ne curò le immagini, di un libro sulle "Feste religiose in Sicilia", e che dell'argomento se ne intendeva.