L'arte della parola e quella della politica

L'arte della parola e quella della politica

attualita
Typography
Democrazia, libertà e libero confronto di opinioni pubblicamente dibattute sono il fuoco sacro della civiltà occidentale. Il fascino indiscutibile della parola accompagna il cammino dell’uomo, mentre la possibilità di libera espressione è ciò che contraddistingue, o quantomeno dovrebbe,
una società evoluta da una legata al cappio della manipolazione di poteri occulti e opprimenti.

Quando pensiamo ad una società le cui fondamenta siano costituite da una solida e imprescindibile democrazia, è naturale che ci capiti di immaginare un’assemblea di ottimati, impegnati ad argomentare in punta di logica sul bene del Paese.
Ma cosa accade quando chi dovrebbe rappresentare pubblicamente le istanze di una comunità non tiene conto dei freni e dei contrappesi costituiti dai valori sociali? E quando si stenta a riconoscersi nei vecchi punti di riferimento e non se ne intravedono nuovi?

La risposta sta in una sola parola:”retorica”, per lo più di bassa lega dove a prendere il sopravvento, in mancanza di contenuti validi, non è più ciò che si dice ma come lo si dice.
Diversi politici, a qualsiasi livello essi si trovino e a qualunque schieramento appartengano, conoscono bene questo meccanismo che più volgarmente, dietro le quinte dell’arena politica, definiscono come “fumo negli occhi”: perché non si tratta quasi mai di convincere un gruppo di possibili interlocutori ma di accaparrarsi una succulente platea di elettori.

E cosa non si farebbe pur di non cedere un millimetro di poltrona? Per il bene superiore del proprio tornaconto alcuni sono disposti a sfoderare tutto il campionario di dichiarazioni, tanto vuote quanto altisonanti, che retori classici (da Aristotele a Cicerone passando per Quintiliano) etichetterebbero come “fallacie”, ossia come argomenti di facile presa sul pubblico e di mediocre logica, agevolmente smascherabili dall’interlocutore.

Infatti, in mancanza di concretezza, a molti non resta che sparare a zero ed insultare gratuitamente l’avversario solo per tentare di delegittimarlo. O ancora, estrapolare una frase dal contesto e stravolgerla per creare sterile polemica.
Ed ecco che tutto questo viene documentato sui media dove boutade e colpi bassi riescono a conquistare in men che non si dica la prima pagina.
Poi, in certe realtà similgiornalistiche locali (che nulla hanno a che vedere con l’etica giornalistica e dove la parola principe troppo spesso è “approssimazione”) il gioco preferito sembrerebbe essere quello di creare ad hoc un capro espiatorio, magari al fine di acquisire un po’ di notorietà, per tentare di entrare nelle grazie e nel portfolio di qualche politico, o ancora per provare ad ottenere qualche introito pubblicitario in più.

In tutta questa baraonda di chiacchiere o meglio, per dirla in maniera più incisiva, di curtigghiu, a pagarne le conseguenze è sempre e solo la gente comune. Adesso che anche in Italia, seppure a stento, sta prendendo forma il bipolarismo, l’elettore si aspetterebbe che almeno sulle questioni importanti per la macchina politica, burocratica, economica e legislativa le facce della medaglia potessero essere finalmente e sostanzialmente due. Un po’ come avveniva nella tecnica delle antilogie: ovvero della contrapposizione di argomenti di forza eguale e contraria.
Ad insegnarla era Protagora, per il quale “su ogni cosa vi sono due punti di vista”. E non importava se ad avere la meglio fosse la ragione peggiore, ma che fra le due tesi, l’una contro l’altra armata, trionfasse quella presesentata con maggiore abilità, a prescindere dal suo valore.

Ma come si può parlare di bipolarismo quando le formazioni di schieramenti sono prevalentemente motivate dalla necessità di sconfiggere un nemico comune piuttosto che dal bisogno di fare il proprio massimo per garantire i sacrosanti diritti dei cittadini? Come ci si può sperare che esista una vera opposizione se i politici che dovrebbero stare dalla stessa parte della bilancia e lavorare per vigilare sull’operato del governo ingaggiano fra loro battaglie parolaie all’ultimo sangue? Poi se dall’ambito nazionale passiamo ad analizzare il contesto prettamente locale, ed in particolare bagherese, possiamo solo dire che è proprio vero che al peggio non vi è mai fine.

E con ciò non ci riferiamo a schieramenti di destra, di sinistra o di centro. Le piaghe aperte di questa città non sono ascrivibili ad una particolare zona politica, fosse così forse sarebbe tutto più semplice. Nei giorni scorsi, dopo circa un mese di silenzio, il consiglio comunale è tornato in aula. Il mese di assenza di sedute dell’assise cittadina è quello relativo alla campagna elettorale per le provinciali. Sostanzialmente, visto che molti consiglieri erano particolarmente impegnati a racimolare voti, i problemi contingenti della città sono stati accantonati.
E quando finalmente il consiglio è tornato a riunirsi, cosa è accaduto? Abbiamo assistito ad una lunghissima sfilza di comunicazioni, complimenti, congratulazioni, attestazioni di stima e di affetto, ma anche precisazioni per ribadire che la maggioranza è una e deve rimanere tale.

Quando finalmente a qualche consigliere è stato dato modo di chiedere chiarimenti su alcune fasi dell’operato dell’amministrazione, attraverso le interrogazioni, le risposte ottenute sono state semplicemente insignificanti e per nulla esaustive. Questa non è una novità, fa parte della ‘logica’ del politichese. Quello che però sconcerta è notare come diversi politici non si trovino a loro agio con un uso corretto della lingua italiana, facendo una continua strage di congiuntivi. E anche se generalmente preferiamo la sostanza alla forma, apprezzeremmo poter constatare, da parte di alcuni, non solo l’ impegno sul fronte politico ma anche su quello di un corretto modo d'esprimersi, visto e considerato che ancora a Bagheria la lingua ufficiale è l’italiano.

Infine, ci permettiamo di dare, con un pizzico di sana provocazione, un umile suggerimento: la prossima volta che le esigenze della campagna elettorale dovranno essere anteposte alle problematiche della città, il consiglio si faccia sostituire, nelle sue funzioni di organo controllore dell’operato dell’amministrazione, da un commissario straordinario in modo da garantire che la città non si fermi ad aspettare i comodi, le esigenze o le ambizioni di tizio e di caio.