Abitare lungo le coste siciliane significò per molti secoli essere esposti alla pirateria turca che rendeva insicuri i terreni prospicienti il mare e seminava tra le genti morte e disperazione.
Il motivo fondamentale che rendeva inconciliabili le due civiltà, site sulle opposte spiagge del mar Mediterraneo, era chiaramente quello religioso, ma sull’accentuazione esasperata della differenza si premeva, da entrambe le parti, per tenere viva la strategia della “tensione permanente” che nascondeva fini di altra natura. Noi eravamo per loro “li rumani infedeli adoratori di idoli ricoperti d’oro e d’argento” che, in nome di Allah, dovevano essere distrutti prima che depredati; da parte nostra, si riteneva di fare altrettanto, in nome di Cristo, nella prospiciente Africa. Valga, a proposito, la lettura degli scrittori arabi coevi curati da Michele Amari nella Biblioteca arabo-sicula. Dopo la battaglia di Lepanto (1571) cessò il pericolo d’invasione, ma aumentò la pirateria attraverso aggressioni e offese armate a convogli e territori, con sottrazione di derrate alimentari e cattura di “anime cristiane” ridotte in schiavitù; i “captivi”, infatti, erano ritenuti preziosi sia come manodopera che per possibili riscatti o per l’utilizzo nelle galere.
Le torri di guardia e i numerosi avamposti che dominano i promontori e i capi della Sicilia costituivano il sistema difensivo, di avvistamento e di comunicazione per arginare le frequenti incursioni dei corsari barbareschi. Tra Capo Zafferano e Termini se ne contavano ben undici: Torre Zafferana, Torre di Sant’Elia, Castello di Solanto, Torre Sperlinga, Torre Mìlicia, Torre Colonna o Iditella, Torre di Capogrosso, Torre delle Mandre, Castello di San Nicola, Castello di Trabia e Castello di Termini. (S. Mazzarella - R. Zanca, Il libro delle torri, Palermo, 1985).
La zona di Solanto già dal giugno del 1529 era stata interessata dalle scorrerie di un famoso corsaro, Sericano Bassà, detto ‘il Giudeo’ che infestava tutta la costa, nel 1555 dieci galere arrivarono “in la Baxaria” dove catturarono un bovaro e uccissero dodici buoi, nel 1582 venne segnalata la presenza di un naviglio corsaro, nell’estate del 1583 furono catturati alcuni pescatori nelle acque di San Nicola e negli anni 1593-1595 la presenza lungo la costa fu continua e costante. (G. Bonaffini, La Sicilia e i barbareschi. Incursioni corsare e riscatto degli schiavi, Palermo, 1983).
Devastante fu l’incursione avvenuta nella notte tra il 14 e il 15 luglio dell’anno 1636, di cui riferisce, in due diverse cronache, un diarista della città di Palermo, il sacerdote Vincenzo Auria che avverte di avere “cavato” le narrazioni da un manoscritto del notaio Baldassare Zamparrone (V. Auria, manoscritti, voll. ai segni Qq C 9- Qq E 5, Biblioteca Comunale di Palermo).
Ecco la cronaca della scorreria: martedì 15 luglio del 1636 a Palermo erano in corso i festeggiamenti in onore di Santa Rosalia, tutto era pronto per la processione della Santuzza. La reliquia del suo corpo era stata scesa dalla cappella “con grande solennità“ e alle ore 15 il clero e i numerosi fedeli erano disposti in ordine per avviare il corteo “a modo di trionfo”. Inaspettatamente “venne avviso che ne’ mari del castello di Solanto, vicino di Palermo, vi erano quattordeci galere di Biserta, e che avevano dato foco in alcune case della terra di Altavilla ed altri luoghi vicini, e prese alcune persone, con vilipendio dell’immagini dè santi…Per questo rumore non si fece la processione di santa Rosalia, essendo che si pubblicarono bandi rigorosi, che ogn’uomo comparisse con l’armi”.
Il duca di Montalto, viceré di Sicilia, fece suonare la campana di Sant’Antonio per avvertire del pericolo, per cui la notizia dell’attacco dei pirati si diffuse rapidamente a Palermo, generando paura e smarrimento non solo tra i numerosi fedeli presenti in Cattedrale ma nell’intera popolazione, “onde tutta la notte e insino all’alba si stette in timore”.
Si apprestò un battaglione di tutte le maestranze nel piano di Sant’Erasmo, cominciarono le guardie a difesa della città , mentre il pretore don Mariano Migliaccio, principe di Baucina, mandò “nelle suddette parti di Solanto molti soldati a cavallo; e trovarono che vi era calata la milizia delle terre vicine. Onde li Turchi, i quali avevano sbarcato in terra, tornarono ad imbarcarsi sopra le loro galere, per aver sentito sonar la trombetta da capitan Cannella, capo dè soldati a cavallo della città, che guardano le marine”.
Il giorno dopo a Palermo ritornò la calma perché si seppe che erano solo dieci le galere dei pirati, le quali, dopo l’assalto a Solanto e alla Mìlicia, “passaro a vista della città e si pigliarono il loro cammino per la Barberia”. La processione di Santa Rosalia, terminata la paura, si fece “a tenore dell’avvenimento” il 20 luglio, ossia la domenica successiva.
L’ Auria ci informa che i pirati saccheggiarono il magazzino di don Lodovico Spatafora, i fondaci della Milicia e di Fondachello, “avevano pigliato molte tonnine di Solanto e buona quantità di vino del detto di Spatafora. E presero alcune feluche, che passarono per quel mare, e particolarmente una, nella quale vi era la zita della città di Termini, che venìa in Palermo per la festa della nostra santa Rosalia”.
Il danno maggiore lo subì il paese di Altavilla: la terra venne “bruggiata et distrutta”, il quadro della Madonna della Mìlicia venne offeso con “corpa d’accetta” come ricorda ancora la memoria popolare e come è possibile ancora constatare sul retro dell’icona dove sono visibili quattro fessure prodotte dalle scimitarre dei pirati. (Cfr. S. Brancato- G. Brancato- V. Scammacca, Un insediamento rurale dell'area palermitana. Altavilla Mìlicia, secoli XXII-XIX, Bagheria, 2011).
Uno schema interpretativo molto diffuso vuole che la grande devozione dei palermitani per la Madonna della Mìlicia sia legata proprio all’incursione che abbiamo ricostruito: come la Santuzza aveva salvato la città dalla peste nel 1624, così la Madonna che si venera ad Altavilla aveva liberato la città dal percolo dei pirati barbareschi. Tuttavia né le cronache dell’epoca né altri documenti d’archivio confermano questa lettura dei fatti, non c’è traccia di intervento miracoloso della Vergine a custodia dello spazio. E’ vero però che durante la processione della Vergine il fercolo, all’uscita dal santuario ed al rientro, sosta in direzione di Palermo, in segno di protezione verso la città e sono numerosi i palermitani che ancora oggi portano a spalla in processione la Madonna della Mìlicia, trasmettendosi tale ufficio di padre in figlio.
Salvatore Brancato