“Che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo dall'altra parte?" Il quesito ce lo pone Shahram Khosravi, iraniano, ex migrante, oggi docente all'Università di Stoccolma, nel suo libro Io sono confine, tradotto in italiano da Elena Cantoni per Elèuthera (240 pp, 18 euro).
Da migrante illegale a docente universitario, Khosravi, con un cambio di prospettiva, ci trasporta in un lungo viaggio, il suo e quello di tanta umanità, in un'avvincente auto-narrazione etnografica in cui egli stesso è protagonista e studioso del fenomeno migratorio, soggetto e oggetto. Man mano, la sua vicenda personale si intreccia a quella di tanti altri: richiedenti asilo, apolidi, profughi, una moltitudine invisibile costretta da vari fattori, anche climatici, alla migrazione. “C’è speranza, ma non per noi” scrive l’autore, citando Kafka, in esergo al primo capitolo.
Varcato il confine- i tanti confini- il migrante è, infatti, esposto a qualunque tipo di rischio, piomba nell’illegalità e nell’incertezza, non sa quanto tempo durerà il viaggio e quale sarà la destinazione. A ciò si aggiunge la violenza e l’emarginazione, il carcere e il campo profughi di cui lo stesso Khosravi farà esperienza. Una bolla temporale, dove si è costretti all’immobilità e all’attesa, dove si consumano esistenze di serie B e il tempo si ferma in “una prigione pre-moderna di scarto”. Di tanti uomini e donne si perdono le tracce per mari e per terre sconosciute. “Dal 1993 al 2018 -ci dice Khosravi- oltre 40 mila profughi e migranti sono morti nel tentativo di aprirsi un varco nella Fortezza Europa”. Un lungo viaggio attraverso frontiere materiali e mentali, che inizia subito dopo il confine in Iran, che Khosravi, ventenne, decide di varcare per sfuggire a guerra e persecuzione e finisce in Svezia, dove l’autore, almeno all’inizio, continuerà la sua esperienza di emarginazione e solitudine (alieno in Svezia e straniero in Iran), fino alle pallottole di uno xenofobo.
Con il supporto di analisi etnografiche, antropologiche e citazioni di filosofi e scrittori (Kafka e Harendt, tra i tanti), Khosravi ci regala anche una narrazione sui confini, i quali determinano ingiustizia ed esclusione, dove una parte di umanità ha “ il diritto di avere diritti” e un’altra no. Una situazione che peggiora sempre più.
Nella prefazione all’edizione italiana, pubblicata nove anni dopo l’originale inglese del 2010, Khosravi scrive che nel frattempo “il numero di muri eretti sui confini è quadruplicato e l’industria delle frontiere è diventata un business gigantesco.” Quella di Khosravi è dunque la storia singola di una migrazione che si fa collettiva di un’umanità dolente, da sempre in cammino, che non si ferma e bussa alle nostre frontiere e alle nostre coscienze.
Un libro necessario, che smaschera tanti stereotipi e facili storytelling mediatici sull’immigrazione e auspica un nuovo umanesimo contro il processo di disumanizzazione in atto. Con l’ottimismo della volontà e in ricordo dei tanti che sono stati e continuano ad essere il confine.
Maria Luisa Florio