Cultura

Il professore Franco Lo Piparo, bagherese, ordinario di Filosofia del linguaggio presso l’Università di Palermo, è uno dei tre finalisti del premio letterario Viareggio-Rèpaci per la sezione “saggistica” con il suo ultimo libro “I due carceri di Gramsci” ed. Donzelli.

Il premio "Viareggio-Rèpaci" dopo le polemiche sulla scorsa edizione e la ferma difesa della indipendenza di questo premio letterario dalle “intromissioni” del mercato, da parte della precedente presidente Rosanna Bettarini, che oggi fa parte della giuria, dopo avere eletto la nuova presidentessa Simona Costa, ha presenta ufficialmente sabato 14 luglio sulle terrazza dell’Hotel Plaza e De Russie, le terne finaliste.

Per la narrativa saranno Il libro di Mush, ed. Skira di Antonia Arslan, Le parole perdute di Amelia Lynd, ed. Feltrinelli di Nicola Gradini, e Malacrianza, ed. Nutrimenti di Giovanni Greco.

Per la poesia sono stati selezionati Sauro Albisani, La valle delle passioni, ed. Passigli; Antonella Anedda , Salva con nome, ed. Mondadori; Nino De Vita, Omini, ed.Mesogea.

Per la saggistica assieme a I due carceri di Gramsci di Franco Lo Piparo, concorreranno per il premio finale Pietro Boragina, Vita di Giorgio Labò ed. Aragno e Anna Levi, Storia della biblioteca dei miei ragazzi, ed. Bibliografia e informazioni.

La serata finale e l’assegnazione dei premi si svolgerà a Viareggio al Centro Congressi Principe di Piemonte il prossimo 7 Settembre.

Proprio in questi giorni il prof. Franco Lo Piparo aveva ricevuto la comunicazione di avere ottenuto un altro importante riconoscimento con il Premio Minturnae, la cui giuria è presieduta da Ernesto Galli della Loggia. Il premio gli verrà consegnato Sabato 28 Luglio presso il Teatro romano di Minturno.


Confesso di essere oltre che felice, confuso, - ci ha detto il professor Lo Piparo- non mi aspettavo tanto, anche perché si tratta di riconoscimenti prestigiosi.
Il premio Viareggio è uno dei più importanti premi letterari in Italia e per quanto riguarda il premio Minturnae, presidente è appunto Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della Sera e studioso di storia politica di fama internazionale.”

 

 

Verrà proiettato sabato 14 luglio alle ore 21,00 a Palazzo Aragona Cutò con ingresso gratuito il film di Pietro Germi "In nome della legge", ecco una breve presentazione di Biagio Napoli che parlerà del film anche sabato sera prima della proiezione.

altIn nome della legge, al suo uscire nel 1948, venne salutato come il primo western italiano. Si scomodò John Ford, il suo attore Henry Fonda, il film Sfida infernale (Wyatt Earp e Doc Holliday contro i Clanton all’O.K. Corral).

In effetti il latifondo siciliano era paragonabile al deserto che circondava la città di Tombstone. Peraltro l’eroe del film (il pretore Guido Schiavi) è assimilabile a quei personaggi di numerosi B movie western, siano essi killer sceriffi cavalieri erranti, Alan Ladd Randolph Scott Audie Murphy Clint  Eastwood, che, giunti in un paese, con il loro comportamento fuori dagli schemi, sconvolgono la vita degli abitanti. 

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Il film fu tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo. E’ un libraccio. Sostiene che i mafiosi sono persone per bene che amministrano la giustizia e difendono la legge al posto dello Stato laddove esso non c’è.

Per fortuna nel film c’è soltanto una scena ambigua, quella finale in cui la legge si afferma non contro ma con l’aiuto della mafia. Paragoniamo questa scena ad alcune pagine del libro di Leonardo Sciascia Il giorno della civetta. Sono quelle in cui assistiamo a una sorta di onore delle armi tra il capomafia don Mariano Arena e il capitano Bellodi.

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Il boss ha finito di enunciare la sua concezione dell’umanità che divide nelle categorie degli uomini, dei mezzi uomini, ominicchi, piglianculo, quaquaraquà. E’ tra gli uomini che mette il capitano dei carabinieri. 

E quest’ultimo, con una “certa emozione”, ricambia. Se Germi è ambiguo, Sciascia è campione di ambiguità. Ma quelle pagine sono letterariamente efficaci come cinematograficamente efficace è quella scena. 

Ma, allora, perché lo scrittore nel suo La Sicilia nel cinema (in La corda pazza), ritiene di doverla criticare?

11.07.2012

Biagio Napoli

Prenderà il via sabato 7 luglio alle 21,00 nella splendida cornice di Palazzo Aragona Cutò di Bagheria la rassegna cinematografica estiva del cartellone di eventi Apq "Cinema in Villa".

Il primo appuntamento prevede la proiezione dell'ultimo film di Nanni Moretti "Habemus Papam" (2011), la pellicola verrà introdotta da Mimmo Aiello, che saprà sicuramente suscitare la curiosità e l' interesse dei presenti sulla pellicola.

La rassegna si snoderà lungo tutto il mese di luglio ed è prevista la proiezione di un film ogni sabato del mese (7, 14, 21, 28), preceduti dall'introduzione di un esperto di cinema diverso di volta in volta, sempre alle 21,00 a Palazzò Cutò con ingresso gratuito.

Nel secondo appuntamento sabato 14 luglio, Biagio Napoli presenterà il film "In nome della legge" (1948) considerato il "primo western italiano", unanimemente riconosciuto come il capolavoro di Pietro Germi. Un film che non dimostra affatto i suoi 60 anni ed oltre, essendo dotato di un buon ritmo e di una trama avvincente.

Sabato 21 luglio verrà invece proiettato il film di Paolo Virzì "La prima cosa bella" (2010), una pellicola toccante, che riesce a suscitare nello spettatore forti emozioni quali il riso e il pianto, come solo i film ben riusciti riescono a fare. A parlarne ci sarà Tanino La Mantia.

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Infine Sabato 28 luglio sarà la volta di Giuseppe Di Salvo che presenterà la pellicola di Pierpaolo Pasolini "Medea" (1969) con Maria Callas, un film che risulta ancor oggi godibile e ricco di spunti di riflessione.

Una rassegna cinematografica che unisce titoli recenti e meno recenti, ma tutti legati assieme da un unico filo conduttore: la magia del cinema.

Una buona occasione per trascorrere un pò di tempo all' aria aperta e in compagnia, coniugando cultura e svago in questa torrida estate bagherese.

L'invito è esteso a tutti e come già detto l'ingresso è gratuito.

Allora appuntamento tutti i sabati di luglio a Palazzo Cutò di Bagheria alle ore 21,00 

 

Guarda il video promo di "Cinema in Villa" 

1850

A don Giuseppe Mancuso, giudice regio supplente, quello stesso che ha avuto l’intuizione del formarsi, in paese, di un partito di cattivi, tagliano nottetempo, all’inizio di quel 1850, un vigneto. Ma non è che l’ennesimo avvertimento. E ora teme per la sua vita. Supplica le autorità di dargli un impiego a Palermo in modo da fuggire da quell’inferno che è Bagheria. Quella storia del taglio delle viti terrorizza però anche il cancelliere. Don Giovanni Lo Monaco, uscito indenne dalla sparatoria nello studio del notaio-sindaco Pittalà, l’anno prima, ora, costretto in qualsiasi momento a seguire il giudice in tutti gli affari penali, chiede di potersi armare e di armarsi fino ai denti. Un fucile vuole tenere e portare, due pistole, un bastone animato; al momento opportuno intende vendere cara la pelle. Subito dopo (già era giudice don Giulio Miccichè) fu tagliato un altro vigneto. Il malcapitato, stavolta, era il capo dei rondieri, cioè dei 14 uomini che, alle dipendenze del Giudicato, avrebbero dovuto ripulire il territorio dalla malavita. Ma don Giuseppe Manfrè aveva fatto parte di quel comitato che s’era recato a Termini a far atto di sottomissione nei confronti dei Borboni. C’erano, in quelle malefatte, pulsioni rivoluzionarie, i delinquenti che si organizzavano, vendette private e conti da chiudere?

Ma il 1850 è l’anno di una vicenda dai tratti dostoevskijani (secondo la prima istruzione) se non fosse stata, invece, il frutto d’un’invenzione della fantasia (seconda istruttoria). Due giudici: uno, fin troppo zelante e desideroso di ben figurare nei confronti delle autorità borboniche, costruisce in pochi giorni una trama degna d’un romanziere (I demoni anche a Bagheria?), l’altro, per mettere in cattiva luce il collega, la demolirà. 

I fatti. Un morto ammazzato, colpito da un fucile alla testa e da dietro in avanti, viene rinvenuto in contrada Giancaldo.

Don Giulio Miccichè, giudice circondariale titolare ma con incarico in scadenza, indaga e, non intendendo lasciare le cose a metà, lavora giorno e notte per chiudere il fascicolo prima del suo trasferimento. Interroga la vedova. Sa d’un alterco con un nipote per motivi di interesse. Lo arresta. Lo rilascia verificatone l’alibi. Continua ad indagare. Ora scopre che, prima della morte, quell’uomo era addirittura fuggito da Bagheria ma, ammalatosi, era dovuto ritornare per essere accudito dai familiari. Si era ripreso, era stato assassinato. Cosa c’era dietro? Addirittura una cospirazione: da Bagheria doveva iniziare un nuovo ’48. Ed ecco come: i cospiratori, armati, avrebbero simulato una rissa alla Matrice e, all’accorrere dei rondieri, dovevano attaccarli, sollevare il popolo, portare la rivoluzione antiborbonica a Palermo.

Il morto di Giancaldo si chiamava Francesco Buttitta, aveva fatto parte di quel complotto salvo poi a pentirsene e fuggire. Ma quella fuga a nulla era valsa, sapeva troppo, poteva parlare, al suo ritorno a Bagheria lo assassinarono. I capi della congiura avevano cognome Sciortino, Benedetto, Isidoro, Giuseppe, tre fratelli, il secondo un testimone, tale Giuseppe Gaipa, lo stesso che aveva rinvenuto Il cadavere, lo aveva visto poco prima dell’omicidio passare armato di fucile da quei luoghi.

In totale i rivoluzionari di Bagheria erano soltanto otto (c’era anche qualcuno di Misilmeri) e, tranne due ch’erano riusciti a prendere il largo, furono tutti arrestati. Scrive Nicola Previteri: “Dunque, da una Bagheria politicamente grigia ed opportunista, emerge per porsi su un piano di sconosciuta idealità, soltanto un pugno di uomini del popolo, ricco di ingenuità e sprovvedutezza che mette a rischio la propria vita inutilmente”. (1)

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Ma davvero le cose andarono in questo modo? Il delitto era avvenuto il 26 di agosto; il 7 di settembre si celebrarono le consegne tra il giudice uscente, don Giulio Miccichè, ed il subentrante, don Emanuele Cicala. L’indagine del primo era durata circa dieci giorni. Ora, ad indagare, è il secondo. Con lo scopo smontare le conclusioni cui era arrivato il suo collega. E vi riesce. Come in ogni cospirazione che si rispetti, anche quella aveva avuto la sua spia. Ma, Domenico Ajello, il delatore, era un fior di delinquente. 

E la prima istruzione era interamente basata sui suoi racconti. Bastò al Cicala insinuare che il delatore poteva non essere credibile, che la congiura era, in realtà, un’impostura. Allora la Corte, e stranamente per un tribunale borbonico, fu fortemente garantista; in assenza di prove prosciolse e liberò gli arrestati (il 15 aprile del 1851). 

Dov’era la verità? Nel pozzo, come sempre, ma quello non aveva fondo.

Biagio Napoli -  Giugno 2012

1-Nicola Previteri, Verso l’Unità. Gli ultimi sindaci borbonici, Assessorato Beni Culturali del Comune di Bagheria 2001, p. 78.  

Leggi anche Bagheria dei misfatti 1 e Bagheria dei misfatti 2 

 

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