1850
A don Giuseppe Mancuso, giudice regio supplente, quello stesso che ha avuto l’intuizione del formarsi, in paese, di un partito di cattivi, tagliano nottetempo, all’inizio di quel 1850, un vigneto. Ma non è che l’ennesimo avvertimento. E ora teme per la sua vita. Supplica le autorità di dargli un impiego a Palermo in modo da fuggire da quell’inferno che è Bagheria. Quella storia del taglio delle viti terrorizza però anche il cancelliere. Don Giovanni Lo Monaco, uscito indenne dalla sparatoria nello studio del notaio-sindaco Pittalà, l’anno prima, ora, costretto in qualsiasi momento a seguire il giudice in tutti gli affari penali, chiede di potersi armare e di armarsi fino ai denti. Un fucile vuole tenere e portare, due pistole, un bastone animato; al momento opportuno intende vendere cara la pelle. Subito dopo (già era giudice don Giulio Miccichè) fu tagliato un altro vigneto. Il malcapitato, stavolta, era il capo dei rondieri, cioè dei 14 uomini che, alle dipendenze del Giudicato, avrebbero dovuto ripulire il territorio dalla malavita. Ma don Giuseppe Manfrè aveva fatto parte di quel comitato che s’era recato a Termini a far atto di sottomissione nei confronti dei Borboni. C’erano, in quelle malefatte, pulsioni rivoluzionarie, i delinquenti che si organizzavano, vendette private e conti da chiudere?
Ma il 1850 è l’anno di una vicenda dai tratti dostoevskijani (secondo la prima istruzione) se non fosse stata, invece, il frutto d’un’invenzione della fantasia (seconda istruttoria). Due giudici: uno, fin troppo zelante e desideroso di ben figurare nei confronti delle autorità borboniche, costruisce in pochi giorni una trama degna d’un romanziere (I demoni anche a Bagheria?), l’altro, per mettere in cattiva luce il collega, la demolirà.
I fatti. Un morto ammazzato, colpito da un fucile alla testa e da dietro in avanti, viene rinvenuto in contrada Giancaldo.
Don Giulio Miccichè, giudice circondariale titolare ma con incarico in scadenza, indaga e, non intendendo lasciare le cose a metà, lavora giorno e notte per chiudere il fascicolo prima del suo trasferimento. Interroga la vedova. Sa d’un alterco con un nipote per motivi di interesse. Lo arresta. Lo rilascia verificatone l’alibi. Continua ad indagare. Ora scopre che, prima della morte, quell’uomo era addirittura fuggito da Bagheria ma, ammalatosi, era dovuto ritornare per essere accudito dai familiari. Si era ripreso, era stato assassinato. Cosa c’era dietro? Addirittura una cospirazione: da Bagheria doveva iniziare un nuovo ’48. Ed ecco come: i cospiratori, armati, avrebbero simulato una rissa alla Matrice e, all’accorrere dei rondieri, dovevano attaccarli, sollevare il popolo, portare la rivoluzione antiborbonica a Palermo.
Il morto di Giancaldo si chiamava Francesco Buttitta, aveva fatto parte di quel complotto salvo poi a pentirsene e fuggire. Ma quella fuga a nulla era valsa, sapeva troppo, poteva parlare, al suo ritorno a Bagheria lo assassinarono. I capi della congiura avevano cognome Sciortino, Benedetto, Isidoro, Giuseppe, tre fratelli, il secondo un testimone, tale Giuseppe Gaipa, lo stesso che aveva rinvenuto Il cadavere, lo aveva visto poco prima dell’omicidio passare armato di fucile da quei luoghi.
In totale i rivoluzionari di Bagheria erano soltanto otto (c’era anche qualcuno di Misilmeri) e, tranne due ch’erano riusciti a prendere il largo, furono tutti arrestati. Scrive Nicola Previteri: “Dunque, da una Bagheria politicamente grigia ed opportunista, emerge per porsi su un piano di sconosciuta idealità, soltanto un pugno di uomini del popolo, ricco di ingenuità e sprovvedutezza che mette a rischio la propria vita inutilmente”. (1)
Ma davvero le cose andarono in questo modo? Il delitto era avvenuto il 26 di agosto; il 7 di settembre si celebrarono le consegne tra il giudice uscente, don Giulio Miccichè, ed il subentrante, don Emanuele Cicala. L’indagine del primo era durata circa dieci giorni. Ora, ad indagare, è il secondo. Con lo scopo smontare le conclusioni cui era arrivato il suo collega. E vi riesce. Come in ogni cospirazione che si rispetti, anche quella aveva avuto la sua spia. Ma, Domenico Ajello, il delatore, era un fior di delinquente.
E la prima istruzione era interamente basata sui suoi racconti. Bastò al Cicala insinuare che il delatore poteva non essere credibile, che la congiura era, in realtà, un’impostura. Allora la Corte, e stranamente per un tribunale borbonico, fu fortemente garantista; in assenza di prove prosciolse e liberò gli arrestati (il 15 aprile del 1851).
Dov’era la verità? Nel pozzo, come sempre, ma quello non aveva fondo.
Biagio Napoli - Giugno 2012
1-Nicola Previteri, Verso l’Unità. Gli ultimi sindaci borbonici, Assessorato Beni Culturali del Comune di Bagheria 2001, p. 78.
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