Ogni anno ritorna.
Inesorabile, Inevitabile, Implacabile.
Come il succedersi delle stagioni, come il campionato di calcio, come la trasmissione di Rai 1 il sabato sera, come i quiz di Mike Bongiorno.
Ritorna con le sue alborate, i suoi "tammurinari", le luminarie, le bancarelle di calia e simenza, ed il torrone e lo zucchero filato, ora anche con le bancarelle di prodotti etnici o di lampadari e tegami, ( a ricordare che la vita quotidiana si assenta solo per qualche giorno), con le sue giostre, con le “ballerine” e l’autoscontro, la sfilata dei carretti siciliani, le decine e decine di “vasche” nel corso Umberto, per chiudere chi “iochi i focu”.
E poi ancora oggi ieratica e solenne l’uscita della vara del santo e la processione dei fedeli.
E’ la festa di San Giuseppe, patrono della Baarìa.
Sempre uguale e sempre diversa.
Un paio di volte , nel 1993 quando si insediarono i commissari dopo il primo scioglimento (e già con questa omissione indisposero la gente); o l’anno scorso, quando i lavori in Corso Umberto impedirono il tradizionale passìo, la festa di San Giuseppe saltò.
Nel 1996 invece sindaco Valentino, fu l’ultima volta che furono autorizzate le corse di cavalli.
Ed è per questo che i baarioti ricordano ancora Giovanni Valentino, ma non gli bastò questo indubbio merito per battere nel 2001 la concorrenza a sindaco di Pino Fricano.
Si disse poi da parte di pentiti e rapporti di carabinieri che in quei giorni anche l’imprendibile Provenzano passiò con mafiosi e paesani e si godette pure lui le corse dei cavalli.
Lo prenderanno dieci anni dopo; la polizia però.
Chissà perché ! Ma il tempo che è il vero galantuomo un giorno ci dirà anche questo, se non a noi, ai nostri figli, che resteranno a bocca aperta.
E fu allora nel 1996, convinti che avremmo ritrovato la vecchia atmosfera che avrebbe anche contagiato i giovani, che scoprimmo che la festa non era più la stessa: che non aveva più i colori, il calore, gli odori e i sapori di un tempo.
Lo capimmo perché sui nostri figli allora adolescenti non esercitò quel fascino e quell’attrazione che avevano sempre suscitato in noi bambini di un tempo le corse dei cavalli.
Cresciuti a Nutella e Nintendo si annoiavano ad aspettare di vedere passare cavalli e fantini , di vivere l’atmosfera tesa e a tratti violenta della zona di partenza dove li portai, quando i “uzzuna” si scambiavano robuste nerbate tra di loro, quando dalle froge e dagli occhi i cavalli schiumavano ardore e paura, e nell’odore selvaggio di sudore e di rabbia e di voglia di battersi di uomini e di animali, quando i cavalli venivano “bummiati” subito prima della partenza in Via Consolare; o il clima dell’arrivo , delle risse inevitabili che seguivano la “corsa della bandiera”, e i suoni della folla in Piazza Madrice; dal brusio pieno di eccitazione che accompagnava la partenza e che di bocca in bocca siu trasmetteva sino al Palazzo come una enorme "ola vocale" , che via via all’avvicinarsi dei cavalli aumentava di intensità, con le voci che si accavallavano e l’emozione che cresceva, sino al passaggio di cavalli e fantini che era come una folata di vento, ed era allora che l’incitamento diventava urlo, che quasi sospingeva cavallo e fantino per gli ultimi 100 metri sino al traguardo.
E l’avviso delle corse dei cvalli che veniva “abbanniato” con banditore e tamburo lungo le strade del paese nei giorni della festa:
“ Sintit! sintiti! sintiti! U sinnacu abbisa: cchiù tardi ‘e cincu ci su i cursi ri cavaddi: stati attenti e picciriddi e cu mori a cuntu so”
Era questo “bando”, la vera polizza assicurativa delle autorità contro eventuali incidenti, (molto frequenti, invero, quando nell'anteguerra, le corse si svolgevano con i cavalli "a sduossa" cioè senza fantino), oltre ad una serie di inutili transenne e a qualche centinaio di poliziotti e carabinieri che venivano da Palermo con il loro furgoni e cellulari, che servivano più a sedare le risse e a fare ordine pubblico che a garantire la sicurezza degli spettatori.
Li chiamiamo riti, liturgie, con il tono di chi dice: “son cose inutili”. Ma non è così.
Da noi la festa di San Giuseppe, ma ancora di più ad Altavilla “a Maronna Aritu” e Porticello “ a Maronna ‘o lumi”, fanno parte di quei “valori comuni e identitari” che fanno diventare un insieme di persone una vera e propria comunità.
Che sono valori religiosi e laici, che affondano le loro radici nella memoria profonda e nella tradizione orale, che poi vanno a definire quello che modernamente, ed impropriamente potremmo chiamare DNA culturale e di costume
Da noi, valore identitario, era la coltura dei limoni, con tutto il corteo di operazioni che accompagnava la produzione, la raccolta e la commercializzazione di questo agrume che fece un tempo ricca Bagheria.
Era valore “l’arruspigghiata”, era il rispetto, quasi sacrale, con cui il limone appena raccolto veniva manipolato per non farlo “spiritiari”.
Era valore la compravendita degli agrumi, quasi cerimonia, produttore e commerciante in piazza tra il bar "Aurora" e la la Madrice, che con una semplice stretta di mano stipulavano contratti per milioni di lire di allora, e che, comunque fossero andate le quotazioni dei mercati, sarebbero stati onorati.
La festa si svolgeva, la prima domenica di Agosto, in un periodo particolare per Bagheria, e in una cadenza quasi simmetrica con il 6-7-8 Settembre, per la Madonna della Milicia, e la prima domenica di Otobre con la festa della Madonna SS. del Lume.
C’era stata da poco la raccolta dei verdelli, a sostenere le spese della festa erano per la gran parte i commercianti di limoni, tornavano gli emigrati con le loro auto per noi lussuose che agghindavano con "cianciane", “ frinze” e bandierine come si usava per i carretti, e li riconoscevi subito da come parlavano, da come vestivano e naturalmente dalle cose che ti raccontavano di Torino, di Milano, della Germania, della Francia, del Belgio.
Le" vasche" di corso Umberto erano un bagno di socialità: in quel perpetuo andirivieni si incontravano e reincontravano per decine di volte le stesse persone, ma si incontrava anche e per caso l’amico, il parente, il conoscente che da tanto non vedevi.
Le donne in piazza con l'abito nuovo, le ragazze a occhieggiare ed amoreggiare con lo sguardo i giovanotti che le puntavano sorridenti e complici.
Si combinavano in quei giorni, ed in quel corso, affari e matrimoni, si stringevano alleanze politiche e si progettava talvolta anche la morte.
Adesso siamo soliti dire che la festa ( e Bagheria) non è più quella di un tempo, ed è proprio vero e lo ripetiamo; non ha più gli stessi colori e lo stesso calore, gli stessi profumi e odori, né gli stessi sapori.
Anche perché noi per primi siamo cambiati. Siamo più vecchi, ma non solo.
Perché?
Perchè Bagheria e ognuno di noi siamo cambiati dentro.
Perche intanto non è più la festa di tutto il paese: per un buon 30/40 % dei residenti a Bagheria i loro Santi Protettori si chiamano Santa Rosalia, San Gandolfo o san Calogero, SS. Salvatore o la Madre Sant’Anna.
Un tempo era tutto il paese che partecipava e che veniva coinvolto nella festa: ora non più.
Non partecipa più né dal punto di vista religioso, nè alle nostre emozioni, né al nostro rito laico della “passiata 'nno stratunieddu”. Il vero ”baarioto” continua a farsi eroicamente le sue vasche in piazza, a sudare sotto la sauna delle luminarie, e a chiedersi stupito e testardo, (qualche decina di volte ad ogni giro) che cavolo è che muove qualche decina di migliaia di persone a fare avanti e indietro dalla Madrice a Palagonìa, senza che ci sia niente da vedere.
Invece è un rito che ripetiamo: quello della fedeltà e dell'appartenenza profonda, viscerale ad una comunità: quella dei "baarioti".
Il foresto invece si va a mangiare la sua banalissima pizza, magari all’Aspra o a Porticello, per poi forse gustarsi i “ iochi ri focu”
E poi perché è tutto cambiato: l’agricoltura, l’economia, la politica, gli uomini, e la loro cultura e la loro fede.
Per dire della cultura e del sentire popolare della fine degli anni ’60 , e di quello che era considerata la Festa di San Giuseppe, ci piace chiudere ricordando una espressione di un conoscente, scomparso tragicamente nel 1989, nell’ "annus horribilis" per Bagheria.
Per dare forte testimonianza della sue idee liberali e tolleranti nei confronti delle donne, al Bar “Don Gino” (quello di Palagonìa) se ne uscì con questa frase agli amici, che lo guardarono, non so, se ammirati o sconvolti: “Io a me mugghieri, agnannu agnannu c’à puortu a viriri alluminazione ra festa i San ciusiappi”
Ma a Bagheria in quegli anni succedeva anche di peggio.
Giovedì 30 Luglio comunque comincia la Festa, il programma lo sapete già. Uniche novità: i Tinturìa, le luminarie, l'alborata, i tammurinari ecc..ecc..ecc..