Quando Peppino Speciale mi richiamò: "Devi usare il 'noi' al posto dell' 'io' - di Pino Fricano

Quando Peppino Speciale mi richiamò: "Devi usare il 'noi' al posto dell' 'io' - di Pino Fricano

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Il ventennale della morte di Peppino Speciale mi ha dato lo spunto per ricostruire alcuni ricordi che ci consentono di fare una riflessione sull’evoluzione della qualità della politica e sul rapporto tra generazioni.

 Nei primi anni 80 lavoravo nel settore agricolo e, per un breve periodo, mi ritrovai a fare il consigliere comunale per il PCI, in quell’occasione in compagnia di Peppino Speciale, capogruppo, e Peppuccio Tornatore, consigliere.

In qualità di tecnico del gruppo, quando si discusse del Piano stralcio per via Mattarella fui chiamato a fare il mio intervento che naturalmente puntava sul riequilibrio del rapporto residenza/servizi a favore di questi ultimi, lo slogan di allora era “case (popolari), scuole e ospedali nei quartieri popolari”.
Alla logica dei condomini contrapponevamo la cultura di uno sviluppo equilibrato, che salvaguardasse beni culturali ed ambiente e garantisse una dignitosa qualità della vita: il diritto ad un’abitazione dignitosa per tutti, al verde, all’istruzione ed alla salute.

Nel merito ho imparato dopo a comprendere il ruolo positivo della mediazione in quell’occasione svolta da Andrea Zangara, se a Bagheria abbiamo un “asse attrezzato” lo dobbiamo a lui, al di là del merito qui mi interessa ricordare alcune questioni di metodo. Fatto il mio intervento, pieno di riferimenti a punti di vista personali, feci rientro al mio posto e fui richiamato da Peppino, il capogruppo, mi disse: “ha usato troppe volte l’io, nel nostro partito siamo abituati ad usare il noi, si discute, si concorda una linea, poi si interviene a nome di tutti”.

Il richiamo mi infastidì, provenivo da un decennio di maoismo, ero cresciuto col mito della rivoluzione culturale, i vecchi professori inviati a rieducarsi nella campagne per fare spazio ai giovani, quel richiamo mi pareva provenisse da un vecchio trombone abituato a liturgie consumate dal tempo.

Successivamente ho avuto modo di ricredermi, quando ho visto affermarsi , anche nel nostro partito, logiche individualistiche, il prevalere dell’interesse particolare su quello generale, l’attaccamento alla carriera, l’egemonia del modello consumista ed edonista, ho ripensato spesso a quelle parole, forse aveva ragione Guccini “a vent’anni si è stupidi davvero”.

Ho ripensato alla necessità di tornare al noi, ad un progetto collettivo condiviso, ad una vera cultura del servizio, alla necessità di un partito che tornasse a svolgere il ruolo di intellettuale collettivo, che non assecondasse l’ultima moda o l’ultimo sondaggio ma come profeticamente ebbe a dire Berlinguer, tornasse a svolgere un ruolo pedagogico, valorizzando la dimensione etica dell’esistenza (la questione morale), proponendo un modello sobrio di utilizzo dei beni (l’austerità).

Col mio maoismo rottamatore mi appariva incomprensibile la necessità di continuare a sostenere l’elezione di un compagno 'anziano': la parola d’ordine del ’68 era “chi non fa lavoro di massa non ha diritto di parola”. Anche in questo caso ho compreso solo dopo che senza di lui non avremmo mai compreso la necessità di opporsi ad un vincolo paesistico esteso all’intero territorio, che toglieva dignità ad una comunità e la rendeva serva dell’arbitrio di alcuni funzionari regionali.

La critica feroce ai vizi di una comunità, che nonostante le aspirazioni cittadine era rimasta un “paisazzu”, non gli impediva di riproporre la difesa della dignità di quella comunità, della libertà, della democrazia.

Lo fece anche con Dacia Maraini, contestando i suoi giudizi sprezzanti su una comunità maschilista e fallocrate, lo fece quando interrogandosi sul declino del Partito non cercò la causa nell’ignoranza o nell’accattonaggio del popolo, ma bensì nell’incapacità del partito di esercitare egemonia culturale, di intestarsi un progetto concreto di sviluppo che potesse garantire una prospettiva di benessere diffuso.

Peppino ci ha insegnato anche a riflettere sulle radici, sull’identità culturale di una comunità, una pianta senza radici viene divelta al primo colpo di vento, questi insegnamenti mi hanno fatto riflettere successivamente su un detto africano “quando muore un vecchio e come se bruciasse una biblioteca”.

Ormai non so quanto possa interessare la morte di un vecchio o il rogo di una biblioteca, siamo in una fase storica in cui l’atteggiamento dei ventenni si trascina spesso oltre i trenta, ora come allora i giovani sono convinti di non avere bisogno di nessuno, che su internet si trova di tutto, non so quante volte dovranno sbattere la testa al muro prima di comprendere la necessità di fare memoria, di comprendere il valore di un’esperienza che nessuna lettura, più o meno digitale, può sostituire.

All’Italia come a Bagheria, serve un patto tra generazioni, in un’epoca di innovazione spinta e di forte competizione, i non nativi digitali sono fuori mercato, è un gesto di grande irresponsabilità continuare a tenerli in ruoli operativi, così come è suicida da parte dei giovani pensare di poter fare a meno dei consigli, del ruolo di indirizzo, di chi errori ne ha fatti tanti, ma forse può insegnare ai nuovi protagonisti come farne di meno.

Aprile 2016

Pino Fricano, già sindaco di Bagheria