Girando lo sguardo verso il mare, noto con sollievo che gli ulivi sono ancora lì, in massa, e hanno sempre lo stesso colore cereo, argentato.
Fra gli ulivi, in basso a destra, la villa Spedalotto, con le sue colonne leggere, il suo cortile, il suo cortile assolato e sempre vuoto, il suo cancello chiuso.
“I marchesi di Paternò di Spedalotto acquistarono dal cavaliere Arezzo la villa mentre era in costruzione.
Il palazzetto era costituito da un fabbricato agricolo terraneo, ripristinato e trasformato verso la fine del Settecento per essere destinato a luogo di villeggiatura.
A esso si perviene attraverso un pronao colonnato al quale si accede da un cancello che dà su quell’antica strada provinciale la quale incrociava a Solunto la via Consolare.
La costruzione sorge in mezzo a una distesa di agrumeto profumato quasi alle falde della Montagnola di Serra di Falco, in contrada Despuches, vicino alla beveratura omonima.
Il palazzetto ha lo stile fra il Luigi XII e il neoclassico, ha una sopraelevazione e annessa cappella con sacrestia”.
Così scrive il serafico Girgenti, con la sua prosa didascalica, commovente per l’amore che dimostra per la più piccola costruzione architettonica della sua Bagheria.
Ferdinando XI di Borbone, il nefasto re Bomba, detto anche crudele e lazzarone, ebbe i suoi natali a Bagheria, proprio nella villa Arezzo.
Il suo genitore Francesco I, scellerato, brutale e feroce più del figlio e la regina solevano soggiornare nella villa.
Una epigrafe che si conserva ancora ricorda la loro ospitalità in casa Arezzo nei mesi di Ottobre, Novembre e Dicembre del 1799.
“ Si dice che nella casina Arezzo Spedalotto”, continua il nostro gentile Girgenti, “si conservi ancora la culla dove emise i primi vagiti l’infante che doveva divenire il barbaro re Bomba…"
Nel 1860 Victor Hugo, arringando la folla alla vigilia della storica spedizione dei mille in Sicilia disse:”Il capo Mongerbino finisce in una spiaggia deserta, in questa spiaggia alcuni sbirri portano sacchi; in questi sacchi vi mettono degli uomini. Si immerge il sacco nelle acque, v isi tiene fino a che più non si dibatte, allora si tira fuori il sacco e si dice all’uomo che è dentro: confessa. Se ricusa si reimmerge il sacco nell’acqua.
In questo modo fu fatto morire Giovanni Vienna da Messina”.
I miei antenati materni che oggi guardano con occhi indifferenti dai quadri appesi alle pareti, certamente stavano dalla parte di chi reggeva il sacco e se non stavano a spingere il sacco dentro l’acqua con le loro mani, sicuramente se ne stavano a mangiare sorbetti e trionfi di gola mentre qualcuno chiudeva le cocche della iuta con lo spago ben robusto, anche per conto loro.
da Bagheria, di Dacia Maraini