Da bambino mi mangiavo i ricci interi, con la scorza e le spine e il guscio, tanta era la fame: perché la nostra bocca è un mulino;
e anche i fichi d’india mi mangiavo con la buccia e non mi facevano male, tanta era la fame; perché il nostro stomaco è un calderone e sotto la gola c’è una vampa che brucia ogni cosa, mi diceva lo scoparo dell’Aspra aprendo per me dei ricci di mare che era stato a pescarmi sulle rocce di quella costa tra Bagheria e Capo Zafferano, sotto le rovine dell’antica città di Solunto, che è forse il luogo più bello dove un corpo umano possa stendersi al sole.
Rocce scoscese terminano in mare con una specie di cornice o di piedistallo di pietra appena sopra il livello dell’onda, che, gonfiandosi dolce, la ricopre a tratti; e questa cornice piena di alghe e di conchiglie e di madrepore e di animali marini, dove si può passeggiare protetti alla vista delle rocce strapiombanti e scavate sotto l’acqua i mille invisibili anfratti (...)
Qui in questi cuori marini, ci si può adagiare, mentre dai fori della roccia sale in spruzzi e in gesti subitanei, con un gorgoglio sotterraneo, una doccia improvvisa e , avvolti teneramente dal mare, rimanere a lungo senza pensieri, con null’altro davanti che un impenetrabile azzurro…
Da Carlo Levi, Le parole sono pietre. In alto, la foto del faro è una gentile concessione di Nino Granata