Sabato 14 novembre nella nostra città, abbiamo camminato, insieme a tante ragazze e a tanti giovani delle Scuole,
impegnati e festanti, che hanno costituito il corpo rilevante del corteo, partecipando accanto a tanti altri concittadini ad un importante momento “politico” che, al di là delle presenze numeriche, ha voluto essere segno “significativo” di solidarietà con gli imprenditori che, recentemente, si sono ribellati all’odiosa oppressione mafiosa; e nello stesso tempo, di testimonianza, anche se semplice ma visibile, di voler essere e voler vivere come normali cittadini in una città che, ancora, continua a non essere normale.
Certamente non è stata la prima manifestazione – e, purtroppo, non sarà l’ultima – contro questo perverso sistema di delinquenza che inquina e corrode il tessuto sociale, talvolta senza che il comune cittadino se ne renda conto consapevolmente. Ma questa volta, abbiamo camminato a fianco di queste persone, vittime ma, nello stesso tempo, protagoniste di un comportamento esemplarmente coraggioso, abbiamo potuto guardarle negli occhi, stringere le loro mani, senza bisogno di chissà quali discorsi per far comprendere che siamo con loro e che vogliamo e dobbiamo stare insieme a loro che non devono più restare sole ad affrontare situazioni così sconvolgenti, rispetto alle quali, forse, non essendo personalmente coinvolti, è facile lasciarsi andare a considerazioni superficiali e fuorvianti.
Chi può capire, infatti, fino in fondo, quali gravi turbamenti susciti il dover sottostare ad una odiosa intimidazione ricattatoria, di fronte alla quale ci si può sentire impotenti per i risvolti paurosi che tale situazione può comportare sull’equilibrio e la serenità non solo di chi subisce tale violenza, ma di tutta la sua famiglia? Come questi può non avere legittimamente timori fondati e reali per la sua incolumità personale e dei propri cari, per il futuro sereno del proprio lavoro, per un modo di vivere nell’ansia e nell’inquietudine spesso laceranti per dover sottostare ad una soffocante mancanza di libertà e ad una mortificante offesa della propria dignità?
Ancora più apprezzabile, allora, deve valutarsi- senza “se” e senza “ma”- la scelta di chi ha detto di no, avviando un percorso di liberazione personale e sociale, assumendosene con coraggio le conseguenze; scelta, a nostro avviso, fondamentale e determinante, da mantenere con coerenza e fermezza, senza la quale non ci pare sussistere ragionevole sistema che possa proteggere dalla “tentazione”- speriamo mai possa accadere - di continuare a pagare (con un costo, chissà, scaricabile comunque sugli acquirenti), anche se si possa essere entrati a far parte di associazioni antiracket e avere una “patente” che, paradossalmente, potrebbe servire magari ad alimentare il proprio commercio ma non a risolvere alla radice il problema.
Da qui la necessità di chiederci quali possano essere le forme più adeguate ed efficaci di intervento e di collaborazione da parte di tutti noi – politica, amministrazione, società civile – per creare una fronte coeso a difesa e sostegno di quelle scelte: come continuare, tutti insieme, un autentico cammino di liberazione?
Le soluzioni non possono essere semplici o semplicistiche davanti alla complessità del problema.
In questa sede, ci permettiamo di suggerire soltanto alcune semplici indicazioni, anche operative, che non lascino cadere nel vuoto il segnale lanciato con la “marcia” e che possano tenere sempre più viva l’attenzione sociale sul problema. Ci sembra molto opportuno:
- sostenere un percorso comune, già avviato, tra Soggetti sociali interessati, coinvolgendo anche l’Amministrazione e le Forze dell’ordine, per elaborare e sviluppare insieme in modo più sistematico e strategico, proposte di interventi, a breve, medio e lungo termine, ancor più efficaci e mirati;
- promuovere iniziative a sostegno particolare delle donne -madri, mogli, compagne- il cui ruolo genitoriale all’interno delle famiglie coinvolte, può essere determinante e da non sottovalutare;
- rilanciare una Campagna di liberazione, a partire dalle Scuole, coinvolgendo non solo gli studenti, che sono abbastanza sensibili, ma, in primis, i Consigli di Istituto che vedono la presenza dei rappresentanti delle famiglie;
- invitare la stampa, i media, - che rivestono un ruolo importantissimo- a modificare il loro linguaggio, evitando possibilmente di utilizzare termini quali “capo dei capi”, “boss”, “capo-mandamento” ecc., ma preferendo termini molto più diretti, quali “delinquenti”, “criminali” “assassini”, che possano creare molto più disagio emotivo, e non assuefazione, o peggio, emulazione.
Avviare un autentico cammino di liberazione non sarà facile né porterà ad una immediata soluzione del problema assai complesso. Ma forse – o senza forse – sarà degno di una Comunità cittadina più civile e potrà segnare un percorso di riconquista di dignità, di libertà e di ben-essere, anche per il domani dei nostri figli.
Manlio Schiavo