Il quarantotto è un racconto lungo di Leonardo Sciascia pubblicato, insieme ad altri, nel libro Gli zii di Sicilia nel 1958 da Einaudi. Protagonista della storia è il barone Garziano le cui principali attività consistono nella caccia, nel giro delle sue estese proprietà terriere specie al tempo del raccolto, nel recarsi al casino di compagnia, nella compagnia dell’amante, la bella Rosalia il cui marito, il servo Pepè, il barone fa arrestare e trasferire al carcere di Favignana, per fare più liberamente i suoi comodi. Il racconto copre temporalmente gli anni che vanno dal 1847 al 1860: rivoluzione del ‘48, restaurazione borbonica, rivoluzione garibaldina; da vero uomo per tutte le stagioni, il barone attraverserà questi grandi periodi di mutamento mettendosi dalla parte di chi vince con l’obiettivo di difendere i propri interessi.
Il racconto termina con un dialogo tra Garibaldi e Ippolito Nievo, il poeta-soldato; proprio in quanto poeta, a differenza del generale, il Nievo comprenderà fino in fondo l’animo del barone che, dopo la battaglia di Calatafimi, li ha accolti a casa sua. "Nel giardino il barone aveva fatto apparecchiare i tavoli, c’erano caraffe di vino ciambelle e pandispagna, sotto gli alberi erano allineati i pozzetti dei gelati, ai rami erano appese bandierine tricolori”. Garibaldi parlerà del gran cuore dei siciliani, della passione che mettono nelle cose. Nievo noterà che quel barone, in quella splendida accoglienza, ci metteva solo l’entusiasmo della paura. Ecco come Sciascia descrive il poeta-soldato: “un giovane dal profilo nitido, la fronte alta, gli occhi che continuamente mutavano dall’attenzione alla noia, dalla soavità alla freddezza”.
Altra scena dall’impresa garibaldina in cui compare il Nievo la troviamo nel libro di Giuseppe Cesare
Abba Da Quarto al Volturno. Essa è descritta in una noterella del 19 maggio, quand’erano al Passo di
Renna, e l’Abba lo vide per la prima volta all’interno del Ministero della guerra, “una carrozza mezzo
sconquassata, che ci viene dietro menando l’intendenza, le carte e il tesoro militare, a quel che intesi un trentamila franchi”. “L’intelletto di Ippolito Nievo “ era infatti l’altro tesoro che portava la carrozza; “Lo vidi rannicchiato in fondo alla carrozza, profilo tagliente, occhio soave, gli sfolgora l’ingegno in fronte, di persona dev’essere prestante. Un bel soldato”. Dunque ancora il profilo, la fronte, gli occhi. Ma lo scrittore dell’ottocento davvero vide passare la carrozza che trasportava il Nievo e il narratore del racconto di Sciascia, Sciascia, immaginò di vederlo avendo forse davanti la descrizione dell’Abba. I due ci dicono però, ed è quello che a noi più importa, quale fosse il compito svolto dal poeta-soldato nell’esercito garibaldino. Perché, molto prosaica- mente, egli faceva i conti, teneva la cassa.Dentro quella carrozza viaggiava anche Giovanni Acerbi di cui il Nievo era vice. A cose fatte, nel febbraio del 1861, i due non saranno più in Sicilia. Da Napoli, però, il poeta soldato sarà nuovamente spedito, dal suo capo, a Palermo, per raccogliervi la contabilità con i relativi documenti. Con quelle carte, a Torino, avrebbero elaborato il rendiconto definitivo della spedizione garibaldina. Intanto, fin dal settembre dell’anno precedente ( è Umberto Eco che lo racconta ) un tale Simone Simonini, agente dei piemontesi, era stato incaricato d’attaccarsi al Nievo “come una sanguisuga” per fare in modo che quelle carte “scompaiano, svaniscano nell’aria, vadano in fumo e nessuno ne senta più parlare”. La divulgazione di quei conti pare infatti non fosse politicamente utile. Avrebbe messo in evidenza un intrigo internazionale? Finanziamenti occulti? Che le alte sfere borboniche s’erano lasciate corrompere? Aveva dell’incredibile che oltre ventimila soldati borbonici fossero stati costretti a lasciare la Sicilia da pochissime migliaia di irregolari per giunta malissimo armati. Ma quel Simonini, pur familiarizzando col Nievo di cui era diventato una sorta di confessore, non aveva mai raggiunto il suo scopo; non gli restò allora che andare oltre il mandato ricevuto organizzando addirittura un attentato in cui saltò in aria il piroscafo che trasportava Ippolito Nievo, con tutte le carte, da Palermo ancora a Napoli. Altro che naufragio dovuto ad una tempesta! E quell’attentato non fu organizzato a Bagheria?
Simone Simonini, come ogni agente segreto che si rispetti, nell’ordire le sue trame ricorre sempre a un qualche travestimento. Verrà a Bagheria fingendosi prete. Alle porte del paese “aveva scovato una taverna con pochi tavoli in un androne oscuro, ma in quell’ombra gradevole anche nei mesi invernali, un oste all’apparenza ( e forse alla sostanza ) assai sudicio, preparava magnifici piatti a base di interiora, come il cuore ripieno, la gelatina di maiale, le animelle e ogni tipo di trippa”. Frequentando quella taverna conobbe due personaggi; uno lo chiamavano Bronte, perché da lì veniva, ed era stato amico di Fraiunco che Bixio aveva fatto fucilare, come il suo amico non era molto intelligente, ma a morte ce l’aveva con Bixio. A Bronte disse che un piroscafo, l’Ercole, presto avrebbe trasportato il suo nemico, non Nievo, e che a lui affidava il compito di farlo saltare in aria, bastava accendesse una miccia lunga abbastanza da consentirgli di allontanarsi dall’esplosivo, salire su una scialuppa e scappare. Ma non ci sarebbe stata nessuna scialuppa e Bronte, possibile testimone scomodo, sarebbe saltato in aria con tutti quanti gli altri e anche con quel marinaio corrotto che l’avrebbe fatto salire e nascondere nella stiva. L’altra persona che il finto prete conobbe era mastro Ninuzzo custode della polveriera con i borboni e ora, dopo la rivoluzione,
con i garibaldini che, portando via ogni cosa, non s’erano accorti dell’esistenza, sotto la casamatta, d’una cripta che conteneva ancora tanti barilotti di polvere e altro materiale. A mastro Ninuzzo, che era un nostalgico, aveva fatto credere che stava lì per ordine del papa e perché sul trono ritornasse il vero re, quello di Napoli. L’Ercole doveva saltare perché quelle carte su quel re fango avrebbero gettato. Mastro Ninuzzo preparò l’esplosivo.La notte tra il 4 e il 5 di marzo del 1861 il piroscafo Ercole saltò in aria. Simone Simonini calcolò il tempo, e quando credette che la cosa potesse essere avvenuta, riprese il suo solito travestimento e si recò alla taverna di Bagheria dove si concesse “una cena sostanziosa a base di pasta con le sarde e piscistocco alla ghiotta ( stoccafisso ammollato nell’acqua fredda per due giorni e tagliato a filetti, una cipolla, un gambo di sedano, una carota, un bicchiere d’olio, polpa di pomodoro, olive nere snocciolate, pinoli, uva sultanina e pera, capperi dissalati, sale e pepe)”. Dopo la cena andò alla polveriera per eliminare anche l’altro possibile testimone. Abbracciò allora mastro Ninuzzo infilandogli nel ventre “due spanne di pugnale”.
Mastro Ninuzzo tuttavia non muore; dalla polveriera passerà qualcuno e lo aiuterà. Poi andrà in cerca di quel finto prete per vendicarsi. Lo troverà a Parigi ma non riuscirà a farlo perché l’altro, ancora una volta, troverà il modo di liberarsi di lui e, stavolta, definitivamente. Il cimitero di Praga è, ovviamente, solo un romanzo. E’ ben strano, tuttavia, che la cronaca delle ultime settimane indichi la nostra zona come un luogo preferenziale per la preparazione d’esplosivo per attentati. Realtà e fantasia fanno a gara per superarsi.
Novembre 2012 - Biagio Napoli
Bagheria dei misfatti (letterari)-di Biagio Napoli
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