Uno gli spuntò una piaga nell’ala del naso e quando cominciarono a chiedergli che cosa avesse si decise ad andare dal farmacista per una pomata che portò via insieme alla raccomandazione di recarsi dal medico.
Usò quella pomata finchè dal tubo non potè più spremerne; solo allora consultò il medico ma solo per chiedergli una pomata più efficace. Quel medico pomate più efficaci non poteva conoscerne poiché non ne esistevano per quel male e lo mandò dal chirurgo. Non ci andò. Quando morì la piaga si era molto allargata e gli aveva roso mezza faccia. Gli misero sopra un fazzoletto per nascondere quello scempio e perché non vi si andassero a posare le mosche.
Una seppellì due mariti. Il primo ebbe la meningite e di questa morì. A quei tempi una vedova portava il lutto per sempre. Lei si risposò perché aveva una bambina da crescere e non diede importanza allo
scandalo. Avevano il letto in un soppalco. L’uomo s’alzò una notte perché al gabinetto doveva andare, era mezzo addormentato e non si rese conto della direzione che aveva preso, mise così un piede nel vuoto e stramazzò. Lei adesso bambini ne doveva crescere due. Stavolta però non cercò un altro marito e andò a balia, a Palermo, in casa di gente ricca.
Una era stata sempre attaccata ai soldi. Da vecchia la testa le faceva dire di chiedere l’elemosina. Usciva di casa senza farsi vedere, scappando; con i suoi passettini striscianti giungeva sui gradini d’una chiesa dove tendeva la mano. C’era sempre qualcuno che, non conoscendola, la prendeva per una poverella vera e le allungava una moneta. Le brillavano gli occhi.
Uno restò vedovo. I figli li aveva già grandi e ognuno per casa propria. Si prese una che conosceva da anni. Disse che aveva sognato la moglie morta e gli era parsa siddiata.
Ecco una ( come quella del soppalco ) il cui destino era quello di non poterlo avere un marito. Era arrivata schietta che di anni ne aveva quasi sessanta. Non era brutta e nemmeno antipatica. Però era andata così. Sposò quel vedovo che, però, morì presto di una brutta malattia. Dissero che era stata la morta siddiata a riprenderselo.
Uno era il nonno di un bambino di tre anni e mezzo che doveva andare all’asilo alle scuole Bagnera e gli disse che avrebbe visto nell’atrio la statua nera di un signore, quel matematico, che si stringeva con una mano il mento e che per loro, quand’erano bambini, quel gesto significava che non aveva un soldo. Per questo era pensieroso. Tornando da scuola, il primo giorno, il bambino disse al nonno ridendo che lo aveva visto quel signore povero.
Una somigliava ad Ava Gardner e, come Brett Ashley, stava sempre, unica donna, in mezzo a tre o quattro maschi. A non starle attorno era proprio quello che lei voleva. Una notte gli andò a casa e gli disse qual’era il suo problema. Quello, che non era impedito come Tyrone Power o come Jack Barnes, il problema glielo risolse subito. Se la tenne ancora due o tre settimane poi lasciandola. Presto quegli anni trascorsero, quelli della prima giovinezza e ognuno se ne andò per i fatti suoi scordandosi di persone e di amori corrisposti o no.
Uno è Tommaso Di Salvo, detto Masino, anima di celluloide, in una intervista di Maurizio Padovano per il libro Lo spettatore implacabile ( Quaderni Museo Guttuso n. 2, 2006 ) in cui ricorda una vicenda d’amore e di morte vissuta a Roma da Ermanno Randi , promettente attore, con vita e carriera stroncate da alcuni colpi di pistola sparati dal suo compagno Giuseppe Maggiore, di Bagheria, la mattina del 1° novembre del 1951.
Uno era Ippus Maior ( così firmava i suoi quadri ), quel Giuseppe Maggiore che, scontata a Barcellona Pozzo di Gotto la pena per il delitto commesso, tornò a Bagheria dove condusse una vita grama, da artista. Pare che per riscaldarsi, un inverno particolarmente freddo, bruciasse le sue tele. Ma io una sua mostra ( primi anni ’80 ? ), a villa Ugdulena, me la ricordo. E ricordo il rosso e il verde intensi d’un altissimo tronco d’albero colmo d’arance . La memoria però è spesso un inganno.
Uno è Giuseppe Di Salvo, detto Pinuccello, colto maestro e poeta che, nel suo blog, nel maggio del 2009, ha pubblicato una ricerca in tre parti su Giuseppe Maggiore raccontando anche un suo toccante incontro, davanti al bar Aurora, mediato dal rabdomante Matteo Martorana ( Quelli di Bagheria, p. 233 ): -Poggiato con le spalle al muro rivestito di bianco marmo, c’era un signore dall’aspetto aristocratico: aveva una strana eleganza trascurata, appariva sommerso nei suoi pensieri che lo staccavano dal mondo reale. Capelli bianchi con razzature dorate come oro mal lavato. Fumava-.
Uno era mio padre quando ancora con i suoi fratelli faceva il curatolo di villa San Giuliano e il giardino non era stato smembrato e venduto e non erano stati distrutti la casa colorata, il pergolato, la rotonda, la gebbia, i sedili, il boschetto col cimitero dei cani e le innumerevoli stradelle lo percorrevano in lungo e in largo e si incrociavano e lo circondavano presso i muri di cinta. In quelle stradelle mai vi crebbe un filo d’erba. Quand’era il tempo, mio padre e i suoi fratelli, piegato ognuno sulla propria zappa, uno accanto all’altro, quell’erba la raschiavano. Anche quando diventarono vecchi. Venendo cosa avrebbero detto altrimenti il conte ( finchè visse ), o la principessa ( finchè visse ), o la signorina padrona che, quelle stradelle, amava percorrere pur se, alla fine, potè farlo solo su una sedia a rotelle ?
Uno era medico di famiglia ma, rispetto agli altri, stava un gradino più su quasi fosse, ma non lo era, specialista in qualche branca medica. Perché lo chiamavano, a volte, i pazienti degli altri medici curanti per visite a pagamento. Scriveva un mucchio di farmaci e questo alla gente piaceva. Riempiva la ricetta e ne utilizzava anche il retro, un farmaco per ogni possibilità diagnostica, uno di essi sicuro funzionava.
Uno era Nicolino Buttitta uomo di fiducia di Giuseppe Cirincione. S’occupava anche di prendersi il ricavato mensile del sanatorio oftalmico di via Villagrazia, a Palermo. Con chi aveva sostituito in quel sanatorio il Cirincione ch’era a Roma ( un prof. Calderaro, un prof. Contino, un prof. Re morto, quest’ultimo, d’infarto mentre operava una cataratta, Alfredo Cucco ), i patti li faceva Nicolino Buttitta: di ogni incasso mensile, pagato l’affitto della casa, tolte le spese di gestione e del personale, il netto andava diviso in due parti, una per il professore e una per il sostituto.
Uno era Ray Boom Boom Mancini, campione del mondo dei pesi leggeri, nato in America; ma il padre, che aveva lavorato in un pastificio vicino alla farmacia Farina, o Palazzu, da Bagheria era partito. Boom Boom, in Europa per l’incontro che doveva disputare a Saint Vincent, passò da Bagheria per conoscere il paese del padre. E lo conobbe. Paisi ri manciatari. A Saint Vincent ci andarono in 125, il Comune spese 9 milioni per quella delegazione, a Bagheria gli organizzarono un pranzo con 200 commensali. Il Paese di Vincenzo Drago pubblicò, nel numero di febbraio-marzo 1983, un articolo dal titolo Boom Boom…, mangioni. Appunto!
Uno con la venuta a Bagheria di Ray Mancini ebbe l’occasione per scrivere un soggetto cinematografico. In testa aveva quel film con William Holden che, in originale , aveva per titolo Golden boy, e che in Italia, invece, si chiamò Passione. E anche Un uomo tranquillo. Holden e Wayne con un pugno avevano ammazzato sul ring l’avversario. Ray Mancini lo aveva fatto nella realtà. Cinque giorni dopo l’incontro, per un pugno devastante sulla testa, il suo avversario era morto. Bene. Scosso per avere provocato la morte del suo avversario, un pugile giunge nel paese d’origine del padre ma se ne ritorna deluso perché non è o non è più come quello glielo raccontava. Chi poteva pensare a un soggetto per il cinema se non Filippo Lo Medico, quell’anima di celluloide? Quel soggetto però non lo lesse mai nessuno.
Uno è il mio amico Mimmo Aiello; quella volta parlavamo del tempo che, passando, trasforma, spesso in peggio, ogni cosa. E si ricordò allora di quella novella in cui una giovinetta inglese, ad Agrigento ( quando ancora si chiamava Girgenti ), s’era innamorata d’un capretto nero nato da pochi giorni. Compratolo, edovendo visitare altri paesi, aveva dovuto lasciarlo e solo dopo che era tornata a Londra, circa undici mesi dopo, le era stato mandato. Dopo tutto quel tempo quell’animale non era diventato un orribile bestione cornuto, fetido, col vello strappato e incrostato di sterco e fango? Ah, Pirandello!
Uno era informatore dei carabinieri. Così riferì che quel carro rubato alcuni giorni prima a Santa Flavia lo potevano cercare in una stalla proprio all’inizio di via Truden.
Uno era il maresciallo Salvatore Messina comandante dei carabinieri di Bagheria quel 28 novembre del 1949. Il giorno successivo a quella domenica di sangue avrebbe compiuto 34 anni. Lo colpirono nellastalla maledetta e, tranne uno, gli altri cinque delinquenti scapparono. Il maresciallo lo sollevarono e gli tolsero la giubba per rendersi conto della gravità delle ferite. Ma l’uomo aveva la testa reclinata sul petto ed era già morto .
Uno era l’appuntato Franco Butifar che aveva 42 anni e sei mesi; per quanto gravemente ferito, riuscì a colpire con la propria pistola quello dei delinquenti che non andrà lontano ; lo prese al femore ma il danno che gli aveva provocato non era grave. Cercò poi di inseguire quelli che correvano ( pare che quei cinque saranno poi, almeno in parte, presi ) ma stramazzò a terra privo di forze. Portarono l’appuntato in ospedale dove morì.
Uno era il delinquente che era stato colpito dall’appuntato Butifar e s’era nascosto là vicino in casa d’una cugina . I carabinieri lo trovarono sotto il letto, lo presero e lo portarono dove ancora era disteso il cadavere, ricomposto, del maresciallo . Ammanettato, venne fatto sedere a terra, con le spalle al muro, accanto alla salma . Pare che piangesse proclamandosi innocente. Quando lo avevano preso, prima cercò di fare resistenza poi simulò le convulsioni.
Uno era il sindaco, l’avv. Caputo, insieme al colonnello Luca capo del CFRB ( Comando forze repressione banditismo ). Per recarsi in via Truden percorsero via Trabia, la strada che costeggia il lungo viale d’ingresso della villa.
Uno era quello che documentò ogni cosa con la sua macchina fotografica. Pare che passasse di là, per caso, dopo pochi minuti dall’eccidio. Oltre a fotografare il maresciallo morto, il delinquente preso e la cugina, il sindaco e il colonnello dei carabinieri, riprese i militari mentre pattugliavano la strada e cercavano sui tetti. Non scattò fotografie dell’appuntato probabilmente perché era già stato trasportato in ospedale. Quelle foto le vendette in esclusiva a Crimen, un “settimanale di criminologia e polizia scientifica” che le pubblicò alle pagine 14 e 15 nel numero del 4-11 dicembre 1949 a corredo d’un articoletto ( Collezione G. Lo Verso ). Quella rivista definì Onofrio Ficano “il fortunato fotografo”.
Uno lo sapevano tutti che amava l’opera, pure quel malacarne che nel suo quartiere abitava, quello che non ci metteva niente ad ammazzare un uomo e che fece parte poi dei sei di via Truden, il capo. Così, quando andava ad una rappresentazione e, la sera, tornava tardi, giunto in quel quartiere a cantare si metteva, una romanza d’opera, e forte, perché il malacarne sapesse ch’era lui e non uno che lo cercava per ammazzarlo, e avesse salva la vita.
Uno era Filippo Cuffaro che pubblicò nel 1935 un libro dal titolo Volti bagheresi sorta di repertorio, lui fascista, di glorie fasciste locali ma non solo. Perché, infatti, di Paolo Aiello, comunista cui Ignazio Buttitta, dopo pochi anni, avrebbe dedicato una sua bella poesia, scrive cose mirabili, sia dell’Aiello sellaio che del poeta.
Uno era Carlo Doglio quando nel 1968 stava a Bagheria perché fu una sera di quell’anno che ci trovammo insieme a casa di Nino Morreale, sopra la trattoria di sua nonna, a zza Maria. Era là Carlo Doglio, dopo avere cenato, solo per stare in compagnia. La tv accesa trasmetteva il festival di Sanremo. Johnny Dorelli cantò Vola la farfalla impazzita di Mogol-Battisti con un perenne sorriso sulle labbra. E invece disse Doglio scherzando che l’interpretazione di Paul Anka era, come doveva essere dato il tema, drammatica.
Villa Valguarnera, 16 luglio.- …Il 12 notte, bombe su Bagheria. Ci siamo decise-per vedere di dormire un poco-di passare la notte in certe grotte nel “fossazzo” sotto l’altura della villa. Avendole visitate mi è parsa cosa possibile e abbiamo mandato già dei materassi. Le grotte sono situate in una specie di profonda buca; mano mano che ci avanzavamo -all’imbrunire-si sentivano strani rumori, vocio, di una quantità di gente. Giungiamo e penetriamo in una specie di labirinto sotterraneo…caldo asfissiante, cattivo odore, famiglie intere ivi accampate, pianti di bambini, zuffe di donne, buio…qualche lumicino qua e là…rimasi atterrita, scappai subito…mia sorella e le ragazze, le nostre persone di servizio, si misero all’imbocco di un’altra grotta ed io rimasi addossata alla roccia su di uno sgabello che gentilmente mi offrirono. Gente fuggita da Palermo si accampava ovunque all’aperto; intorno a me famiglie intere sdraiate per terra dormivano …ubriachi e ragazzacci facevano baccano. Non so a quale cerchio dell’inferno di Dante si possa paragonare quella effettiva bolgia. Intanto vennero gli aerei e cominciò il solito rombo terrorizzante e…tutto il resto. Durò fino alle quattro .
Una era Felicita Alliata che scrisse Cose che furono pubblicato da Flaccovio nel 1949 e vi inserì, verso la fine, il diario dei giorni passati a Bagheria, a villa Valguarnera, al tempo della guerra. La storia di quel bombardamento e del labirinto di grotte del “fossazzo” utilizzato come rifugio antiaereo è a pagina 320.
Biagio Napoli
Febbraio 2018.