Bagheria come un'infanzia (4) - di Biagio Napoli

Bagheria come un'infanzia (4) - di Biagio Napoli

cultura
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1-A Putia.

E’ chiusa da tempo quella che fu la salumeria di Ignazio Buttitta. Ora quel posto lo hanno chiamato a putia.

Perché, qualche anno fa, fu riaperto per una mostra fotografica di Carlo Puleo, pittore, grande amico del poeta. Foto di Ignazio. Pareva che dovesse diventare un luogo, come si dice adesso, di eventi culturali e invece, da qualche mese, sulla sua porta è comparso un affittasi. Che ci faranno? Ci fu un tempo in cui al bancone, a servire i clienti, ci stava Ignazio Buttitta. Mio padre, la sera della domenica, si recava in quel negozio . Per comprare una fetta di provola e il salame Napoli che il poeta tagliava abilmente con un coltello affilatissimo. Poi tornava a casa sorridente perché il poeta lo aveva salutato dicendogli:-Grande amico mio!-


corso2-Il bar Aurora.
Al suo posto c’è ora un grande negozio di vestiti per bambini; e invece era allora il bar più grande e rinomato del paese. Nei giorni della festa del patrono San Giuseppe, quella laica dico, in estate, il bar Aurora occupava con i suoi tavolini i grandi marciapiedi da un lato e dall’altro del corso Umberto, dalla punta di esso all’Arco da un lato, quello del bar, e, dall’altro, fino a via Domenico Nasca, larga ma brevissima strada che porta alla chiesa del Sepolcro, dedicata a quel Mimì che fu, nel 1911, tra gli scrittori della Guida Bagheria Solunto, andò poi alla guerra e fu ferito, morì giovane, a 34 anni, per i postumi di quelle ferite, combattente 1888 -1922 nella targa. L’ultimo giorno della festa, il terzo e il più importante, mio padre si lasciava convincere dalle donne di casa a vestirsi con gli abiti della domenica per passeggiare con loro nel corso. Lo facevano tutte le famiglie che avevano in casa fimmini schietti. Dopo il passeggio ci si sedeva in uno di quei tavolini, si ordinava il gelato, si aspettava lo spettacolo dei cantanti sul palco nella piazza Madrice. Nel primo pomeriggio io però me ne andavo in giro. Guardavo le giostre a Palagonia, dopo che il mercato fu trasferito dietro lo stadio, e le bancarelle, altissime e dipinte come i carretti, che esponevano calia e semi e noccioline e fave abbrustolite e luppini cotti o fette di torrone. Per strada vendevano un sacco di cose; lo zucchero filato, ad esempio, o i palloncini che, a volte, scappavano di mano ai bambini e salivano in cielo, o il cocco fresco. C’erano rumori, suoni, canzoni, voci d’altoparlante. Io andavo a guardare l’uomo che faceva il gioco delle tre carte; una volta che avevo una moneta da cinquecento lire, ed ero sicuro di vincere, la puntai. Naturalmente avevo puntato sulla carta perdente. Com’era abile quell’uomo! E io mi livavu u viziu. C’era la festa e io una lira in tasca non l’avevo più. Al tramonto cercavo i miei e li raggiungevo. Mi sedevo con loro. I cantanti finivano il loro spettacolo, sparava l’avviso, un fiume di gente si riversava a Palagonia per assistere al gioco di fuoco, che era lungo e bello perché più di un fuochista partecipava a quella che era una gara e vinceva chi lo sparava più maestoso. I tavolini del bar Aurora si svuotavano. Quel bar dava lavoro ad un mucchio di persone, chi al bancone, chi alla pasticceria, chi alla gelateria, alla cassa, a servire nei matrimoni. C’era un cameriere che aveva una voce forte e bella. Gli chiedevano sempre di cantare ed era un piacere sentirlo. Lasciava di servire e cantava più di una canzone. Accompagnato dall’orchestra Castorina. Un suonatore di tromba intonava poi la svettante Ciliegi rosa. Se, in quel matrimonio, c’era l’orchestra Castorina, e il servizio era del bar Aurora, e la sala era quella accanto alla chiesa delle Anime Sante, la sala Puleo, era sicuro un matrimonio di ricchi. Ci si leccavano i baffi con la pasta a forno e il lacerto con le patate dell’Aurora. In competizione c’erano però La Favorita, il bar di Totò ( si chiamava così? ) Fucarino e la sala Sciortino, all’angolo tra la via Lo Re e via Quattrociocchi. Quei matrimoni finivano sempre con la distribuzione dei confetti, un coppo per ognuno, della bomboniera, una per famiglia e, uno per famiglia, di un vassoio di dolci secchi da portare a casa.

3.
Quattru e quattru uottu
scarrica lu buottu
aceddru cu l’ali
scarrica canali
scarrica canali
scarrica canali.

piazza4-Sotto l’Arco.
L’Arco si trova nel corso Umberto e unisce quest’ultimo alla via, appunto, dell’Arco. Quando ancora esisteva il bar Aurora, l’Arco era tra la gelateria di esso da un lato, e una carnezzeria dall’altro. Questa c’è ancora ed è accanto a quella che fu la salumeria del poeta. Di Ignazio Buttitta, dico. L’Arco ha una parte piana mentre l’altra ha una diecina di gradini. La parte piana è vuota e l’Arco ha ora soltanto una funzione di passaggio. E invece, quand’ero ragazzino e, fin oltre la mia adolescenza, da un lato e dall’altro c’erano sistemate due bancarelle. Un vecchio signore vendeva nella bancarella di sinistra coppole e cappelli; Per ricordarmi la sua faccia, ripenso a un film degli anni quaranta dello scorso secolo, il miracolo della 34° strada, a uno degli attori di quel film, Edmund Gwenn si chiamava, e diceva di essere il vero babbo natale. Ma il venditore di copricapi era un vecchio scorbutico che scoraggiava i clienti; però era un uomo pulito e vestiva bene. Se lo scorbutico elegante stava solo, una folla di persone stava nella bancarella di fronte alla sua: la vecchia nonna, la figlia quarantenne, un uomo forse fratello forse cognato di essa, lì a fare numero, o non aveva un lavoro o non voleva lavorare. Questo era un uomo chiaro; le donne erano invece tanto scure da parere africane. Dei ragazzini, i figli della donna più giovane, andavano e venivano. Solo il marito non c’era mai. Andava per i mercatini rionali. Io lo conoscevo però. Abitava con la famiglia in via Ignazio Lanza di Trabia e si serviva del forno dei miei zii per cuocere teglie di buccellatini che vendevano sotto l’Arco. Vi vendevano anche giocattoli, bamboline, gomitoli di lana, cotone, lacci per scarpe, fumetti e gialli usati. Al muro erano fissati dei grossi fili di spago e i gialli pendevano attaccati a mollette di legno. Quei libri mi incuriosivano. Andavo spesso sotto l’Arco per guardare le loro belle copertine colorate. Da ragazzo cominciai a comprarli e a leggerli. Si accumulavano e, quando ne avevo parecchi, glieli rivendevo. Mi davano meno della metà di quanto li avessi comprato.


5-O chianu i Cuttuni.
Nell’Ottocento si chiamava piano Cottone. Fu lì che la notte del 3 luglio 1860 si vittiru per organizzare l’agguato gli assassini di Luigi Bavin Puglisi, maggiore garibaldino. Poi si piazzarono nelle cantonate dello stradone e, u primu chi ci vinni a tiru, ci sparò na scupittata. Erano una ventina, avevano fatto parte della squadra del Puglisi, lo avevano abbandonato. I Picciotti, si sa, prendevano il soldo; guadagnavano tre tarì al giorno, la paga giornaliera di un bracciante. Quando il generale Garibaldi sciolse quelle squadre, ad ognuno dei componenti il caposquadra, fatto l’appello, gli dette una buonauscita di 15 tarì. A quelli che lo uccisero il maggiore Puglisi non aveva dato nulla. Perché, avendolo abbandonato, all’appello non erano presenti. Non c’erano e volevano lo stesso quei soldi. Che patrioti! Nel 1928, nel piano Cottone, c’era già il mercato del pesce; e dietro la pescheria due cognati si erano associati per aprirvi un cinema, il Littorio, poi si sarebbero divisi, nacquero due famiglie di cinematografari che si fecero concorrenza per decenni: Gabriele Pampinella da un lato, i fratelli Lo Medico dall’altro. Quand’ero ragazzino la pescheria non c’era più; il cinema continuava ad esserci, era di Gabriele Pampinella che poi costruì il Supercinema e l’Excelsior, io ci andavo, specie a vedere i film western o quelli di Zorro. Al posto della pescheria vi costruirono il palazzo delle poste. Nel marciapiede del corso Umberto c’era il bancone di uno che vendeva dolci; ricordo i suoi buonissimi taralli, avevano il colore della sua pelle, quell’uomo era bianco quasi come il marmo, o come i taralli, e aveva una faccia tonda che, tuttavia, sembrava piccola in quel suo corpo grasso e sgraziato. Accanto ai sette gradini della posta ci fu poi un’edicola. Io ci compravo le strisce di capitan Miki e di Blek, il grande Blek. La posta si è trasferita; ora c’è un negozio di abbigliamenti. Quando Gabriele Pampinella, all’inizio degli anni settanta, costruì l’Excelsior, quel vecchio cinematografo lo chiuse. Ci fecero un palazzo. Dalla fine della guerra si chiamava Vittoria. Levarono la L iniziale e la O finale, Littorio diventò Vittoria. Lo vediamo nel film Baaria.

biagio napoli

Biagio Napoli

Luglio 2016