Il dottor Tornatore, regista filosofo - di Franco Lo Piparo

Il dottor Tornatore, regista filosofo - di Franco Lo Piparo

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Vi proponiamo una parte della 'laudatio' pronunciata dal prof. Francesco Lo Piparo, ordinario di filosofia del linguaggio preso l'Università di Palermo, in occasione del conferimento della laurea 'honoris causa' in Scienze filosofiche al regista e nostro concittadino, Giuseppe Tornatore.

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Perchè al regista Giuseppe Tornatore viene data una laurea in Scienze filosofiche e non in una disciplina artistica o in antropologia o in storia? È una domanda che molti si saranno posti. Eppure due film del regista bagherese sono di impianto chiaramente filosofico: La migliore offerta (2013), Una pura formalità (1993). Altri, come Nuovo Cinema paradiso (1988), L’uomo delle stelle (1995), Baarìa (2009), se non li leggete come racconti filosofici, voglio dire come metafore di domande filosofiche, perdete molto.

 Prendiamo il film più recente e giustamente pluripremiato, La migliore offerta. Apparentemente sembra una sorta di giallo in cui alla fine si scopre che dei giovani hanno raggirato un vecchio signore per derubarlo dell’enorme patrimonio artistico accumulato negli anni svolgendo la professione di battitore d’asta. Se fosse così, sarebbe decisamente un brutto film. Provato a leggerlo come una riflessione sul tempo che scandisce il succedersi delle generazioni. Vi troverete in presenza di un capolavoro.

Vediamo.

alt Il vecchio battitore d’asta si chiama Virgil Oldman. Nome trasparente (“Vecchiouomo”) che il regista butta lì per fornire la pista, non realistica, da seguire. Claire è la giovane donna con cui Oldman viene in maniera tortuosa in contatto. Entrambi sono metafore di due differenti generazioni. Entrambe sono murate nelle loro fobie e nevrosi. Hanno paura del mondo e se ne difendono innalzando mura divisorie tra sé e gli altri. Oldman riesce ad avere contatto col mondo solo tramite la barriera difensiva dei guanti, la giovane Claire si barrica dentro una villa e comunica col mondo frapponendo tra sé e il mondo esterno il muro di una parete.

Tra il vecchio e la giovane alla fine nasce una relazione erotico-sentimentale che funziona per entrambi da terapia: Oldman abbandona i guanti, Claire esce dalla villa. Oldman, spinto dalla passione erotico-sentimentale per lui inedita, decide di abbandonare la propria attività e organizza un’asta d’addio a Londra. Di ritorno da Londra trova la casa svuotata da ciò che dava un senso alla sua esistenza: l’enorme patrimonio culturale accumulato in molti anni di lavoro.

Il film a mio parere racconta il furto fisiologico che le nuove generazioni compiono del patrimonio accumulato da chi li ha preceduti nel tempo. Oldman ne soffre, come ne soffrono tutti i vecchi, ma è quello che accade e dovrebbe sempre accadere: i giovani rubano, o dovrebbero sempre rubare, il patrimonio di cultura e di esperienza accumulato dagli Oldmen.

Il furto è fisiologico, non patologico. Il rapporto tra le generazioni diventa patologico quando il furto non c’è. E il furto non accade o perché i vecchi, gli Oldmen, non hanno accumulato nulla che sia degno di essere trasmesso ai giovani (non c’è nulla da rubare) o perché i giovani non sono abbastanza bravi da sapere compiere il furto.

Il furto ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella trasmissione del sapere. Nella mitologia greca l’abilità tecnica dell’umanità nasce con un furto: Prometeo ruba il fuoco e la tecnica agli dei per donarli agli uomini. A partire da questo momento l’uomo acquisisce le caratteristiche antropocognitive attuali.

Di un tempo scandito da un furto di cultura parla Nuovo Cinema Paradiso. Alfredo, il vecchio proiezionista, non vuole trasmettere il suo sapere tecnico al piccolo Totò: «Tu non devi fare questo mestiere», gli ripete nella prima parte del film. Totò lo costringerà con l’astuzia a donargli la sua esperienza e la sua cultura: in un esame di licenza elementare passerà al vecchio proiezionista la soluzione di un problema di matematica dopo essersi fatto promettere di assumerlo come allievo nella cabina di proiezione. Sono scene di grande intensità filosofica.

Le trasmissioni culturali – ci sta dicendo Tornatore con quelle immagini – non sono mai regali gratuiti ma conquiste. Totò diventerà grande regista grazie anche a quel furto.
E Baarìa? Se lo leggete come un film realistico perdete molto e non capireste perché sia piaciuto tanto in giro per il mondo, a spettatori che di Bagheria e dell’Italia sanno poco o nulla.

Qui il tempo della trasmissione culturale non è raccontato secondo il paradigma traumatico del furto ma secondo il paradigma del dono.

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In Baarìa è raccontata l’epopea di quasi un secolo di storia attraverso tre generazioni che crescono l’una sull’altra, senza grandi conflitti: il vecchio Cicco Terranuova, vaccaro, dona il proprio sapere e la propria saggezza al figlio Peppino che grazie a quel dono da vaccaro diventerà dirigente politico; Peppino, a sua volta, dona il suo sapere e la sua saggezza al figlio Pietro che grazie a quel dono diventerà grande regista insignito dell’Oscar. È un tempo epico che si svolge con un andamento a spirale. È anche una visione ottimistica della storia del Novecento.

I vecchi donano il senso della loro esistenza ai figli, i figli crescono grazie al dono ricevuto dai padri. In Baarìa questa filosofia del tempo è rappresentata in scene che rimarranno nella storia del cinema filosofico: la corsa onirica da fermo di Peppino verso il figlio che parte con la valigia piena dei doni culturali del padre e del nonno; i due bambini, il padre Peppino e il figlio Pietro, che corrono l’uno nella direzione dell’altro.

È una scena quest’ultima satura di emozioni e di filosofia. Lo spettatore percepisce che il piccolo Peppino, vaccaro e figlio di vaccaro, e il figlio di Peppino, futuro premio Oscar, sono la stessa persona. Un padre non potrebbe avere un riconoscimento più intenso. Quando l’ho vista, la scena mi emozionò come figlio e come padre ma anche come persona abituata a riflettere per mestiere sulla questione del tempo.

Ma che cosa è il tempo? Aristotele prima, Einstein dopo, ci hanno spiegato che tempo e misurazione del tempo sono inseparabili. Si vive nel tempo solo misurandolo. Nei film a cui ho fatto riferimento il tempo delle generazioni che si susseguono ha una direzione in quanto è misurato.

Cosa accade quando le esistenze non riescono a trovare una bussola che dia loro una direzione? La questione è il nucleo tematico di Una pura formalità, il film a maggior densità filosofica di Tornatore. Al settimo minuto del film il regista fa vedere un orologio a pendolo senza lancette e con alcuni numeri cancellati. Il pendolo oscilla, quindi il tempo scorre. Ciò che manca è la misurazione del tempo, ossia ciò che gli dà un senso e una direzione.
Il film leggetelo a partire da questa immagine. Tenete a mente anche le definizioni che Tornatore ha dato del film: «È un film che si svolge nell’aldilà, un giallo in cui l’assassino e l’assassinato sono la stessa persona, un film che si svolge in quel breve spazio di tempo che separa la vita dalla morte». Vi scoprirete molti segreti metafisici.

Prof. Franco Lo Piparo ordinario di Filosofia del linguaggio all'Università di Palermo

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