Cultura

L'Associazione "C.A.M (Centro Artistico Musicale)" presenta "L'Ora D'ascolto" al Teatro Branciforti di Bagheria.

 

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Il C.A.M. giovane realtà di formazione artistica operante nel territorio di Bagheria, propone quattro incontri aperti alle istituzioni scolastiche elementari e medie.

Questo primo ciclo vede la partecipazione del Circolo Didattico "G.Bagnera" venerdì 24 febbraio alle ore 11,00.

Lo scopo di questi incontri si focalizza sull'aspetto formativo e divulgativo dell'arte, nel caso specifico attraverso performance musicali che avranno il compito di trasmettere e presentare ai ragazzi uno spaccato di quelle che sono le varie sfumature di questo linguaggio universale chiamato Musica. 

All'interno di un percorso che ha come interlocutori i più piccoli è importate che questi vengano a conoscenza del contesto naturale e storico in cui ogni disciplina artistica si esprime.

E' stato scelto infatti il Teatro della città Teatro Branciforti come location utile per questo obiettivo.

Per la realizzazione di questo progetto il C.A.M. mette a disposizione a titolo totalmente gratuito le proprie risorse costituite da professionisti che operano nel campo della musica, convinti di quanto l'esperire musicale e artistico sia elemento fondamentale per lo sviluppo critico ed estetico di un individuo.

Direzione Artistica Francesco Incandela

Direzione Didattica Luca Di Quarto

Ignazio Buttitta e gli anni venti una vita spericolata nel paese degli artisti.

Poeta, bottegaio, capopopolo, cantastorie, partigiano, comunista, futurista, giramondo, amico di spie fasciste e di anarchici bambaroli. Ignazio Buttitta, matrioska della posia. Intorno al poeta bagherese negli anni è sorta una diffusa mitologia, spesso da lui stesso alimentata.

Ora Salvatore Di Marco ne "Gli occhi del mondo. Saggi su  Ignazio Buttitta" (Coppola editore, 220 pagine, 18 euro), prova a separare il vero dal falso, le suggestioni dalla cronaca. Ricostruendone tra l'altro l'intensa e lunga biografia, a partire dagli anni giovanili in quella Bagheria capitale siciliana del movimento futurista di Marinetti e inseminata di variegati fermenti culturali. L'unica cosa certa è che fu un grande poeta, tutto il resto va filtrato alla luce della sua esuberante vitalità che lo ha visto attraversare turbinosamente un secolo quasi per intero, dal 19 settembre 899, quando nasce, al 5 aprile del 1997, quando muore. Ci teneva a girare la boa dei cento anni- anzi era un suo chiodo fisso- non ce l'ha fatta per una manciata di mesi.

Bagheria negli anni venti e trenta è una città felicissima, vivaio di giovani irrequieti con il bernoccolo della genialità: Buttitta, Renato Guttuso, Castrense Civello, Giacomo Giardina, Peppino Speciale, Salvatore Tutino, Pietro Tomaselli, Pietro Garajo.

Alcuni sono dentro lo status nascenti del fascismo, altri presi dai fuochi d'artificio di Marinetti e compagni. Proprio il leader del futurismo in quegli anni si reca ben 6 volte nella città dei limoni per dare la scossa ai seguaci e alla sua creatività. In quelle circostanze ha più volte modo di interloquire con Ignazio Buttitta, che molto apprezza e dal quale molto è apprezzato. Entusiasta della poesia  "Amu lu silenziu", si attiva per pubblicarla nel giornale del movimento.

Poeti, pittori, scrittori, cantastorie, si incontrano, declamano versi, cantano, raccontano, polemizzano, pubblicano. E' un fiorire di giornali, come margherite e primavera: "La trazzera", "Il Merlo", "Lu marranza", "Pò tu cuntu", "Retroscena", "Arethusa" e tanti altri. Politica, cultura, questioni strapaesane e tanti versi dialettali.

Buttitta pubblica ovunque gli vengono aperte le pagine. Questo avrebbe indotto, poi, più di un critico a storcere il muso per la sua faciloneria a sporcare le rime con riviste direttamente fasciste o fiancheggiatrici.

altChi ha conosciuto il poeta sa che lui è sempre stato vicino ai più deboli, inneggiando alla giustizia socialista, ma sa anche che pur di pubblicare avrebbe fatto carte false. Lui prescinde dal contenitore, esistono solo le sue parole ritmate, che ama recitare con la sua voce ammaliatrice, artatamente strozzata, e con quel caratteristico pathos che gli sgorga dagli occhi.

Di Marco smonta questi sospetti e tanti altri. Ma con la stessa onestà intellettuale ridimensiona la militanza partigiana del poeta. Il quale ha spesso raccontato dei suoi arresti negli anni in cui - fuggito dai bombardamenti alleati nel palermitano- sposta la sua attività di commerciante di formaggi a Codogno in Lombardia. Smascheratoda un partigiano che fa il suo nome sotto tortura, a suo dire viene salvato da un ufficiale tedesco "malato" come lui di poesia. Un'altra volta viene tradito da una ragazza che lo irretisce con  la sua avvenenza e viene tirato fuori dai guai dal castelbuonese Alfredo Cucco, potente gerarca fascista.

Ecco come ce l'ha raccontato il figlio di Ignazio, Nino, antropologo all'università di Palermo: - "In vista del 25 aprile inviarono mio padre in una zona del Piacentino per sondare gli umori di un distaccamento di soldati cecoslovacchi. Per non dare sospetti si portò me, allora dodicenne. Uno dietro l'altro in bicicletta. Incontrammo una bella ragazza anch'essa in bici e mio padre sempre sensibile al fascino femminile, cominciò ad attaccarci bottone. Per fare colpo raccontò anche della missione. Ma la bella bionda era una spia e mio padre finì in carcere"-.  E' la moglie Angelina - la donna di tutta una vita, struttura portante della famiglia- a correre al Mininculpop implorando il conterraneo Cucco.

-"Lo storico palermitano Massimo Ganci ha incluso anche Buttitta tra quei militanti che nel 1944 dalla clandestinità a Palermo riorganizzavano le fila del partito comunista"- scrive Di Marco - ma Franco Grasso, che era il capo della resistenza locale mi raccontò che il poeta si era limitato a fare occasionalmente da corriere, cioè da collegamento tra gli ambienti clandestini dela sinistra palermitana e i partigiani del nord, con la copertura degli spostamenti per le sue attività commerciali".  L'autore rimarca che Grasso considerasse Buttitta poco adatto a un'attività clandestina visto il suo carattere esuberante, la sua indole pasticciona e la sua vicinanza a una spia nera.

Anche la sua amicizia con il collesanese Paolo Schicchi è stata ridimensionata. Una poesia di Buttitta che invoca la liberazione dell'anarchico in carcere, è stata sventolata come condivisione ideologica. Ma lo studio di Di Marco dimostra che non di amicizia si è trattato ma solo di frequentazioni occasionali durante i soggiorni dell'attivista bakuniano a Palermo. 

Seppure a modo suo, Buttitta è stato comunque sempre dentro il calderone della sinistra, come testimonia Guttuso (con il quale è stato grande amico fin dalla stagione futurista anche se il pittore era allora un simpatizzante fascista) che racconta del poeta diciottenne che partecipa a uno sciopero sventolando una bandiera rossa.  Anche Tornatore nel suo "Baarìa" dedica al poeta una scena che documenta il suo antifascismo. Sempre con il popolo, prima da socialista, poi, con la deriva Craxiana, da comunista.

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Una cosa è certa , il suo ultimo voto nel 1996 è per Rifondazione. -"La mattina delle elezioni"- racconta il figlio Nino mi urla al telefono -"Quella contafrottole di tua sorella Aurora mi ha detto che non ci sono più i comunisti. E ora chi voto ? "-. Gli spiegai la situazione e lo accompagnai al seggio. "I comunisti c'erano, non gli stessi, ma sempre comunisti sono"- mi disse festoso.

Quei comunisti che amava incontrare alle "Feste de l'Unità" o nelle assemblee contadine, gli stessi che si commuovevano nel sentirgli declamare i laceranti versi sul martirio di Salvatore Carnevale o sulla tragedia nella miniera di Marcinelle. 

Di Marco polemizza, infine, con Camilleri reo di avere affermato che Buttitta è la "costruzione" di due concomitanze: l'affermazione del neorealismo e la conoscenza di grandi personaggi, come  Pasolini, Levi, Quasimodo, che ne avrebbero influenzato il percorso. E ci mette il carico insinuando che il poeta "ha espresso in gettoni i contenuti Marxisti", come se la sua poesia civica fosse frutto di un calcolo.

L'autore controbatte, dicendo che il poeta, nato rabdomante di parole, la sua direzione l'ha trovata da solo; i suoi versi giovanili ne sono la prova. Anche se le frequentazioni di quei personaggi gli hanno dilatato la mente. Ne ha fatto di strada quel ragazzino che finite le scuole elementari all'alba del novecento, sembrava zavorrato da una vita di lavoro. La poesia però gli mette presto le ali per svolazzare nel mondo.

                                                                                                                                                                      Articolo tratto dal quotidiano La Repubblica, edizione di Palermo del 18 febbraio 2012

 

Io non sono un critico d’arte: a scrivere queste righe sulla mostra di sculture di Salvo Pellitteri a palazzo Butera che si chiuderà domenica 26 febbraio, mi spingono il culto della memoria del padre Peppino e le sensazioni che la visita alla mostra di Salvo Pellitteri mi ha evocato.

Ho avuto l’onore di aver conosciuto il maestro Giuseppe Pellitteri per una mostra che organizzammo assieme alla Provincia regionale di Palermo a Palazzo Aragona Cutò; io, allora giovane assessore, nominato da pochi mesi, rimasi positivamente sconvolto dalla freschezza della sua opera e soprattutto dalla energica vitalità che sprigionavamo i suoi occhi accompagnati dai gesti scenografici delle mani.

Giuseppe Pellitteri era una persona modesta; parlava con grande pacatezza, ma con la forza serena di chi è sorretto da una grande convinzione e capacità espressiva.

Era meraviglioso vedere all’opera le sue lunghe mani quando con sapienza e metodo plasmavano la creta dandole vitalità, grazia e bellezza o riuscivano a modellare, a dare forma a pietre e legno tirando fuori l’anima da materiale inanimato traducendole e trasformandole in opere d’arte ricche di “sensi”.

Salvo Pellitteri certamente è riuscito a raccogliere il testimone che il padre negli anni aveva cercato di trasmettere a qualcuno dei suoi figli; entrando a Palazzo Butera, mi sono reso conto che Peppino, ovunque oggi si trovi, è riuscito a  realizzare il suo sogno: trasfondere cioè nel figlio non solo quel suo insopprimibile bisogno di dare un soffio di vita, sia pure apparente, alla materia ma anche per consegnare a chi osservava il suo lavoro, un messaggio.

Sì, perché anche Salvo Pellitteri riesce a trasmettere a tutti noi sensazioni vere e ricche di bellezza e passione, capaci di trasportarci sul filo dei sogni e della memoria, verso quell’infinito che ci affascina e ci stordisce.

L’opera artistica di Salvo Pellitteri si innesta nel campo espressivo dell’umanità e in particolare nel mondo della donna, un mondo pieno di sensualità, di estasi ma soprattutto avvolto nel mistero della vita che travalica lo spazio e il tempo, rendendo le figure stesse animate dal soffio della vita stessa.

Sculture come “Ragione e passione” che trasmettono l’apparente ed eterna dicotomia tra fede e ragione o tra cuore e ragione, ma che vede invece fondersi in tutt’uno nell’opera entrambi i corni del dilemma, mostrando i reconditi segreti della vita terrena, ed ovviamente le nostre “contraddizioni” che possiamo facilmente scomporre in virtù e debolezze.

Nell’estasi si possono ritrovare gli stessi elementi caratteristici dell’opera precedente, aggiungendo però l’idea del piacere inteso come anello di congiunzione tra l’ultraterreno ed il concetto di “materialità” di questo mondo.

Salvo inoltre è riuscito a fondere gli elementi di un sapere che ha sempre coltivato, la matematica, scienza in apparenza lontana da ogni espressione artistica, portandoli a  sovrapporsi e a collimare con le regole interne dei sensi dell’uomo che invece non sono “normate” e riconducibili a schemi e formule precostituite.

Credo che la forza espressiva di tutte le opere di Pellitteri, nasca dalla continua ricerca dell’infinito come momento di crescita e di autoanalisi, che porta ad interrogarci sui grandi temi della nostra esistenza e sui nostri limiti e contraddizioni..

Grazie a Peppino e a Salvo, per averci richiamato tutti ad essere più attenti ai messaggi che l’arte ci invia in codice, ma che dobbiamo essere noi con la nostra sensibilità e la nostra volontà a decrittare e comprendere!

Sta alla nostra comunità riconoscere i suoi figli migliori per tributargli i dovuti meriti affinchè i nostri figli possano ricordare e lottare contro l’oblìo del tempo.

Apprezzabile pertanto la iniziativa dell’amministrazione e dell’assessore Francesco Cirafici in particolare, che nella prestigiosa cornice di palazzo Butera hanno voluto ospitare una mostra di Salvo Pellitteri che è anche un omaggio al padre Peppino.

Mi piace dire che per una Bagheria migliore, tutti dobbiamo imparare a saper andare oltre gli steccati, e anche per questo serve visitare la mostra di Salvo, proprio perché ci lascia intendere al di là delle piccinerie e delle divisioni conta l’unicità dei valori pregnanti la nostra umanità.

Biagio Sciortino
 

Pietro Miosi è mio amico. 

Ha un impiego al Comune ma, nelle ore libere, gira le botteguzze dei paesi vicini dove porta formaggio, salame, pelati in scatola e altra roba. Morto il suocero, ne aiuta infatti la moglie a mandare avanti il negozio di alimentari all’ingrosso. A volte, durante quei giri, io l’accom- pagno.

Con Pietro si sta spesso insieme. Domenica è venuto da me per andare a riempire l’acqua in un posto che lui conosce sulla strada per Caccamo. In macchina abbiamo parlato anche di cose che gli rammentarono le vampe di San Giuseppe.

E si ricordò di quando, ragazzo, con gli altri, la sera della vigilia, correva da un quartiere all’altro per vedere i falò più grandi. -Viva San Giuseppe! Viva!- gridò allora con allegria. –Viva San Giuseppe! Viva!- Ma presto diventò serio e si lamentò che non ci sono più quartieri ma soltanto palazzi a tanti piani e che  ormai ne fanno pochi falò la vigilia di San Giuseppe.

Quando arrivammo, alla fontana c’era un uomo che riempiva il primo di una lunga fila di bidoncini di plastica. Sistemammo perciò i nostri, uno accanto all’altro, sul ciglio della strada e ci allontanammo un poco per parlare. Allora disse che non ci si poteva più vedere in un palazzo a tanti piani e che gli piaceva uscire dal paese con la macchina, magari con un amico, come stavolta era stato con me, per parlare.

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Dopo un quarto d’ora l’uomo non aveva ancora finito di riempire i suoi bidoncini e cominciammo allora ad insultarlo senza farci però sentire.

Era un gioco: un insulto diceva lui e uno ne dissi io e quando esaurimmo tutti gli insulti che conoscevamo ne inventammo di nuovi. Così un insulto inventava lui e uno ne inventai io.

Quando l’uomo se ne fu andato, era già un pezzo che non potevamo tenerci dal ridere e mentre riempivamo la nostra acqua, ci guardavamo in faccia e scoppiavamo a ridere. 

In macchina, al ritorno, parlammo di tante altre cose. 

Biagio Napoli

(Pietro Miosi è morto oggi nella sua casa di Bagheria all'età di 71 anni. I funerali si svolgeranno venerdì 17 febbraio 2012 alle 15,30 nella Chiesa del Carmelo di Bagheria)

 

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