Le straordinarie ville settecentesche di Bagheria, che
sono tra le più preziose ricchezze della Sicilia, sono
state private dei loro contorni, rimanendo lì, in mezzo
alle case, come testimoni intirizziti e malmenati di
un passato… (Dacia Maraini, Bagheria, 1993, p.58)
Con gli anni Sessanta il carrettiere, espressione soprattutto dell’economia agricola, dovette trasformarsi in autista; la terra coltivata a limoni, nel dopoguerra, aveva intanto avuto un notevole incremento raggiungendo poi i 1507 ettari del 1970 (momento di massima espansione) dai 680 ettari del 1943. La caratteristica principale dei fondi agricoli era tuttavia la loro eccessiva parcellizzazione che scontava Il peccato originale della frammentazione della proprietà baronale dei decenni precedenti.
(1) E, tuttavia, la piccola proprietà, pur nella variabilità delle annate, assicurava un rendimento elevato; il reddito contrapponeva piccoli proprietari e braccianti, democristiani e comunisti, esistenza stentata e senza prospettiva per chi viveva di solo lavoro e possibilità di condurre vita agiata per gli altri.
Bene quel tempo viene descritto in una recente testimonianza di Ferdinando Scianna: “Io sono figlio di quel boom del limone che determinò anche la psicologia e la cultura di Bagheria in quegli anni. Io la chiamavo Lemon City. Vi si viveva una specie di febbre dell’oro e, come in un paese del west, anche da noi c’erano giocatori professionisti, killer professionisti, personaggi di forte carattere. Forse mancavano solo gli sceriffi buoni. Era un tempo di violenti contrasti sociali”.
(2) Il bracciante, con il possesso di un piccolo limoneto, poteva riuscire a fare il salto sociale. E’ in questo contesto che il 2 luglio del 1962 un bracciante verrà ucciso. Ancora Ferdinando Scianna ce ne racconta la storia: “Giacinto Puleo era bracciante. Come tanti era emigrato in Germania. Con una idea fissa in testa. Risparmiare abbastanza per tornare al paese, comprare un pezzo di terra e mettersi per conto suo. C’era quasi riuscito. Con un amico aveva preso un pezzo di limoneto a mezzadria. Era mancato anni. Non sapeva che in quel limoneto non raccoglieva più il padrone, ma un mafioso. Non glielo dissero subito, ma solo alla vigilia del raccolto. Vattene! Gli consigliarono. Giacinto non ci volle sentire: troppi sacrifici gli era costato quel pezzetto di giardino. Lo aspettarono di primo mattino, mentre andava a lavorarci e gli spararono due colpi di lupara”.
(3) La mafia, anche se non si voleva vedere, dunque c’era; cambierà pelle e continuerà ad esserci. Ma, allora, c’erano i giardini la cui superficie in ettari, finchè l’agrumicoltura fu redditizia, si incrementò. Questa espansione si realizzò però fuori del paese la cui crescita, invece, avvenne a spese dei girati dei nobili che, seguendo “l’esempio della sfrenata speculazione che si verifica nella vicina Palermo”, verranno guardati non più “come una fonte permanente di reddito”, ma come “una occa-sione per lo sfruttamento a scopo edificatorio”. (
4) Furono, a partire dalla metà degli anni cinquanta, gli anni del sacco edilizio e quando, nel febbraio del 1965, fu nominata e si insediò una commissione d’inchiesta, i guasti più grandi e irreparabili erano stati compiuti. Venne accertato come lo stesso Comune, e il suo ufficio tecnico con i suoi dirigenti, fossero in larga misura responsabili dello scempio, di quello che fu un vero e proprio massacro urbanistico.
Dacia Maraini, leggendo quelle carte e scrivendone, fa un ritratto davvero inquietante di uno di tali dirigenti quando lo presenta come “un protagonista oscuro, minaccioso, tenace, che riesce, con le buone e con le cattive, a costringere tutti al suo volere. Ha qualcosa del demone, ma di un demone “meschino”, molto simile al personaggio segreto e infelice di Sologub”.
(5) Nessuno pagherà. Gli accusati ( amministratori, tecnici, proprietari dei terreni ) verranno assolti o per prescrizione, o per amnistia, o per insufficienza di prove, o per insussistenza dei reati. (6) Scriverà Ferdinando Scianna: “Politicamente il paese era dominato, di fatto senza contrasto, dai democristiani. L’opposizione al massimo riusciva ogni tanto a inserirsi fra le loro faide intestine. Rimandarono l’approvazione del piano regolatore finchè non ci fu più niente da regolare”.
(7) Ma Nino Morreale non si contenterà di sottolineare la responsabilità del solo partito di maggioranza e scriverà: “E’ stato il disastro politico e culturale della città: nella debolezza morale di una classe dirigente ( di governo e di opposizione s’intende, perché nessuno dei due pezzi ha saputo fare il proprio lavoro di governare e di opporsi ) che non ha avuto la forza di fare argine ad un movimento potente ma resistibile, resistibilissimo”.
(8) E, all’apocalittico Carlo Doglio, niente poteva bastare; e scriveva già nel 1967: “Si dicono le ville per civetteria intellettuale, e per disimpegno civile. Tanto ne esistono solo gli avanzi, e l’ambiente naturale in cui sorsero è scomparso, e la società da cui nacquero è morta… La ESSENZA di Bagheria non sono le ville, con buona pace di una certa cultura, architettura, eccetera eccetera. E’ questa città (35.000 abitanti !) che non c’è, questa ASSENZA, la sua ASSENZA. I giovani emigrati i vecchi a intasare le strade e gli scalini dell’edificio postale una monocoltura dell’agrume che batte e ribatte vacche grasse e magre senza mai un sussulto di autonoma decisione popolare.
I mostri informi come emblema, i bambini a giocare tra i rifiuti: sono serrate per sempre (Baheria) le “porte del vento”? Si capisce che no. Ma Bagheria deve ancora incominciare a nascere e le ville sono relitti impotenti al concepimento. Un ornamento del futuro territorio, semmai, trasferito nel nuovo verde, quando esplodano vie e case e gente di adesso- un accumularsi di volontà che spezzi le stratificazioni economiche, sociali, culturali per cui Bagheria, adesso, è altrettanto archeologica quanto Solunto”.
(9) Si avrà, verso la fine del secolo, una inversione di rotta; ma, non certo, per quella esplosione di cose e di uomini immaginata da Carlo Doglio bensì, più semplicemente, per il definitivo tramonto dell’era del limoneto (le cui superfici, dal 1970 al 2000, si ridurranno progressivamente ritornando quasi a quelle di settant’anni prima) (10) e delle costruzioni. Come scrive Carlo Tripoli: “Il bene monumentale ritenuto fino a poco tempo prima economicamente improduttivo o addirittura un freno alle ipotesi di sviluppo (causa del vincolo paesaggistico generalizzato su tutto il territorio e tutela per legge delle aree poste nelle immediate vicinanze), comincia a diventare un patrimonio importante capace, se sfruttato correttamente, di assumere un ruolo primario”.
(11) Viene il tempo dell’acquisizione e del restauro di alcune ville e monumenti di loro pertinenza e della riqualificazione del centro storico. Ma il paesaggio è ormai stravolto. Esso era stato il risultato dell’impianto della coltura del limone dopo l’arrivo dell’acqua per uso irriguo solo pochissimi decenni prima, precisamente a metà degli anni Venti del secolo scorso. Vale la pena di riportare la vivida testimonianza di Orietta Guaita che, sul girato di Villa Valguarnera, scrive: “Alla fiamma azzurra degli ulivi subentrarono i limoneti fitti di lucente verde scuro…Fu costruita una canaletta che portò l’acqua della Piana.
Girava tutt’intorno alla villa e al belvedere…le pendici sotto la balaustra, i fianchi del belvedere, ogni terreno fu spietrato e terrazzato. Sparirono i grandi carrubi ombrosi…scomparvero i mandorli, i rovi che regalavano grosse more molto appetite, i fiori selvatici, margherite arancione, narcisi bianchissimi, il raro ricercato fiore lilla dello zafferano e l’elegante albero del pistacchio di cui non ho mai più rivisto un esemplare. Sorsero i giovani limoni dappertutto”.
(12) Breve ma bellissima la descrizione che di villa Valguarnera ne fece Renato Guttuso quando scrisse che essa sovrastava “ il paese di Bagheria dalla sommità di una mammella fitta di agrumeti”. (13) La crisi irreversibile dell’agrumi-coltura, qualora non fosse scomparso, avrebbe reso inattuale questo paesaggio ponendo il problema (come lo pone per il poco terreno non edificato e non curato attorno a villa Valguarnera) di una nuova mutazione. Che sfida per l’immaginazione!
1-Vincenzo Lo Meo, Il LIMONE PERDUTO, i centocinquant’anni della limonicoltura nel comprensorio di Bagheria, Il Nuovo Paese, Bagheria Dic. 10/Gen 11, p. 23 e p. 52.
2-Ferdinando Scianna, Autoritratto di un fotografo, Bruno Mondadori, Settembre 2011, p. 28.
3-Ferdinando Scianna, Quelli di Bagheria, Villa Cattolica Museo Guttuso-PELITI ASSOCIATI, 2002, p. 247.
4-Relazione finale della commissione consiliare di indagine sui fatti urbanistici di Bagheria, in Peppino Speciale, giornalista, politico, storico, Ufficio per la Cultura del Comune di Bagheria, 2006, p.56.
5-Dacia Maraini, Bagheria, Rizzoli 1° Edizione, Milano 1993, pp. 52-53.
6-Il Nuovo Paese, Bagheria, giugno-luglio 2002, p. 59.
7-Ferdinando Scianna, Quelli di Bagheria, op. cit., p. 57.
8-Antonino Morreale, Una testa fuori dal sacco, in Carlo Tripoli, Dalla foresta al PRG del 1976, crescita urbana di Bagheria, EM Falcone Editore, Bagheria 2005, p. 16.
9- Carlo Doglio, Architetti di Sicilia, Palermo 1967, in Supplemento a Il Nuovo Paese, Bagheria, giugno-luglio 2002, XXXIX-XV.
10-Vincenzo Lo Meo, op. cit., p. 29.
11-Carlo Tripoli, Racconto e immagini, Il sacco vuoto, Supplemento a Il Nuovo Paese, Bagheria Dic./09 Gen. 10, p. 79.
12-Gianni e Orietta Guaita, Isola perduta, Rizzoli, Milano 2001, p. 27.
13-Renato Guttuso, Autobiografia-Premessa, 30 agosto 1966, in Renato Guttuso, Dal Fronte Nuovo All’Autobiografia 1946-1966, a cura di Fabio Carapezza Guttuso-Dora Favatella Lo Cascio, EM Falcone Editore, Bagheria 2009, p. 383.