Cultura

Sono passati diversi mesi da quando Mr. Richichi ha installato il suo chiodo su un aereo della Blue Panorama Airlines, ma il dibattito su quest’opera pare tutt’altro che finito, infatti questo mese è giunto perfino su Flash Art, la rivista d’arte più prestigiosa in Italia e tra le più autorevoli in Europa. 

Ad esprimersi è stato il suo editore, Giancarlo Politi, ritenuto tra le dieci persone più influenti in Italia nel mondo dell’arte. 

Politi in risposta ad un collezionista che si interrogava sui possibili limiti dell’arte all’interno della nostra società e sulla validità dell’opera di Mr. Richichi, ha detto: “Se una merda (Manzoni), diventa un simbolo dell’arte contemporanea, se un orinatoio (Duchamp) diventa lo spartiacque tra arte moderna e contemporanea, anzi meglio, tra arte e non arte, stabilendo che è il contesto che determina l’arte, allora di quali limiti mi parli? Perché allora un chiodo su un aereo in volo non potrebbe essere arte? Basta volerlo”.

Forse l’intervento del direttore riuscirà a chiudere il dibattito intellettuale e popolare che ancora oggi imperversa sul chiodo di Mr. Richichi.

Forte del nuovo consenso, Mr. Richichi ha reso noto in questi giorni che effettuerà un nuovo lancio di monete, questa volta 2800 monete euro, il doppio del lancio precedente.

Sarà realizzato a Bagheria ma ancora non è stato comunicato  il luogo e il giorno.


 

Venerdì 8 novembre p.v. alle ore 11.20 presso l'Auditorium del Liceo Scientifico "G. D'Alessandro".

Il  Liceo scientifico di Bagheria avrà il privilegio di ospitare Moni Ovadia, attore, drammaturgo, scrittore e musicista di origine ebraica, considerato una delle maggiori personalità della scena artistica e culturale italiana contemporanea. 

L'artista incontrerà gli alunni e docenti del triennio per rispondere alle domande dei giovani in una "Conversazione" sui temi dell'etica e dei suoi rapporti con la scienza, sulla Shoah e più in generale sulla dignità dell'essere umano e sulla libertà.

Una scheda su Moni Ovadia

 Salomone Moni Ovadia , attore teatrale, musicista e scrittore, è consdierato una delle maggiori personalità della ascena artistica e culturale itaòliana odierna.

Nato a Plovdiv, in Bulgaria, nel 1946,  si trasferisce i sin dalla più  tenera età a Milano insieme alla famiglia ebraico-sefardita, ma di fatto impiantata da molti anni in ambiente di cultura yiddish e mitteleuropea.

Questa circostanza influenzerà profondamente tutta la sua opera di uomo e di artista, dedito costantemente al recupero e alla rielaborazione del patrimonio artistico, letterario,  religioso emusicale degli ebrei dell'Europa orientale.

E proprio da quella tradizione culturale trae ispirazione per la sua opera musicale e teatrale, tesa alla valorizzazione dellla cultura yiddish, che ha contribuito attivamente a far conoscere in Italia e in Europa, sviluppando una lettura contemporanea e unica nel suo genere.

La storia, l'impegno politico, e l'attività di opinionista fanno di Moni Ovadia uno dei più fervidi promotori della cultura yiddish in Italia ein Europa, e uno degli autori più amati e seguiti da un pubblico di tutte le età.

1. MALACARNE

Lavoravano in campagna e piovve.

Quando smise, gli alberi erano carichi d’acqua e la terra era diventata fango.

Mentre pioveva, s’erano riparati dentro il casotto; di tornare al lavoro ora non se ne parlava nemmeno.

Il vecchio disse che si poteva solo andare a casa.

Fu allora che il più giovane dei tre scoppiò in lacrime.

-Che hai ?- gli chiese il vecchio.

-A casa non posso tornarci. Non così presto- disse quello che piangeva.

-Sentiamo perché- disse il terzo, uno che, a guardarlo, pareva un malacarne.

-Quando esco, la mattina, subito c’è uno che entra nel mio letto-

-E tu?- disse il malacarne. –Niente fai tu?-

-Che devo fare? Non sono capace d’ammazzarli-

Disse di non essere capace d’ammazzarli e continuò a piangere.

E il malacarne:-Se ti accusi del delitto, te li ammazzo io-

Si misero d’accordo così e, una mattina, il giovane che piangeva, uscito per recarsi al lavoro, ritornò col malacarne e gli aprì la porta di casa sua.

Trovarono a letto i due amanti; il malacarne fece fuoco e li uccise.

All’altro diede la pistola e questo andò in caserma, a consegnarsi ai carabinieri.

La legge gli dette però ragione e non gli fece niente.

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2.  CATENA  DI  MORTI

Questa invece è la storia di S., che abitava in via Delle Pergole, e di suo figlio, morti ammazzati.

Era tempo di vendemmia quando cominciò, la gente metteva fuori le botti, le sciacquava.

S. era uno fermo, forte.

Gli chiesero un aiuto perché dopo che s’asciugavano le botti bisognava risistemarle.

Ci voleva forza.

Quelli che gli chiesero aiuto erano due fratelli, genti ’ntisa, stavano anch’essi in via Delle Pergole.

Si misero tra la botte e il muro e furono stretti al muro, perché S. era fortissimo e la botte era vuota e lo sforzo non l’aveva misurato.

Quelli pensarono che l’avesse fatto apposta per stringerli al muro, fecero finta di niente, se la conservarono per dopo.

Passò un anno ed S. tornava a casa su un asino con il bambino dietro.

Era al piano dell’Accia, nella strada che portava all’abbeveratoio, quel posto lo chiamavano “all’albero d’ulivo”, c’era una fermata dell’autobus vicino a quell’ulivo.

Era sull’asino e lo uccisero.

Il bambino, fausu, si buttò a terra per morto prima di suo padre. Non vide gli assassini ma ne sentì le voci e lo stesso li riconobbe.

Poi crebbe ed era sempre triste. Si fece un amico e si confidò con lui. Gli raccontò il fatto di suo padre e gli disse che prima o poi si sarebbe vendicato.

Andò soldato. Fece il soldato a Palermo perché non aveva padre. Il capitano lo vedeva sempre pensieroso; gli parve che avesse in testa un chiodo fisso.

-Che hai?- una volta gli chiese. Raccontò la storia al suo superiore.

Dicono ( ma sarà vero? ) che quel capitano lo avesse compreso e incoraggiato ad avere la sua vendetta.

E così una notte venne in paese, da Palermo venne a piedi, seguendo la linea ferroviaria, camminando veloce ci volevano due ore due ore e mezza, di quelli che avevano ucciso suo padre ne ammazzò uno, se ne ritornò in caserma.

Poi disse tutto all’amico che aveva, mentre quelli non si potevano capacitare. Chi poteva essere stato? 

Allora presero l’amico e gli diedero tante di quelle legnate che non potè resistere e disse tutto.

Quando finì il soldato, gli tirarono una schioppettata.

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3. LA  BANDA  DI  VIA  T.

Quella banda aveva il covo in via T; erano cinque o sei, come furetti. Uno si chiamava Bastiano ed era detto Januzzu ’u tarantella, figlio di Cosimo,u ghiacciaru. Uno gli dicevano invece  ’u peri ravusi, poi c’era Nicola S., tintu e lagnusu.

Erano ladri e assassini.

Non ricordo più cosa fosse stato rubato quella volta, ma sicuro erano stati loro e il maresciallo M. sapeva dove cercarli.

Vi andò con il suo appuntato e, giunto in via T., s’affacciò oltre il muro e li chiamò per nome, uno per uno. Questi niente fanno? Prendono e gli sparano e sparano anche all’appuntato che s’era messo ad inseguirli.

Poi li hanno presi, presero Januzzu ’u tarantella e presero anche ’u peri ravusi, perché erano stati loro a sparare. Chi beddri spicchi ri miennula amara!

Una volta se ne erano andati a rubare limoni e, per trasportarli, s’erano portati un vero carrettiere, uno che si chiamava Turiddru ’u liuni.

Lo avevano cercato.

Lo avevano incontrato. –Domani ci vieni a caricare limoni?-

Ma quello non ne sapeva nulla che erano limoni rubati; neppure avevano finito di caricare il carretto e li arrestarono.

Poi certo in carcere uscivano per l’aria e ogni giorno erano legnate sia pu peri ravusi ca pu tarantella . Turiddru ’u liuni glieli dava perché era un bestione; solo Nicola S. non prendeva legnate, perché era un bestione anche lui.

Questo, quando gli diceva la testa, lavorava con mio padre; Una volta, tempo d’estate, andavano a mietere, dallo stesso suo zio andavano, nel podere di Saro S., in contrada Lanzirotti.

Erano le tre del mattino e andavano in carretto.

Improvvisamente Nicola S. disse a mio padre:-Onofrio, fermati!-

-Si può sapere perché?-

-Fermati! Sai che ti dico? Il frumento faglielo mietere a mio zio. Tu e mio zio lo dovete mietere, perché io me ne vado-

E se ne andò. Il lavoro non era cosa sua. Gli veniva più facile ammazzare una persona piuttosto che lavorare una giornata . 

Passano tre, quattro anni, e dovette darsi alla latitanza. Ricomparve per la festa di San Giuseppe, il patrono, andò a casa di suo padre, che abitava in via Lo Re, ma dovette scappare, sopra i tetti, canali canali e saltò fin dentro Mortillaro, che era tutto campagna. 

La stessa cosa successe almeno tre volte e non erano capaci di prenderlo, era n’ariddraru.

Poi l’ammazzarono e non si vide più; né lui si vide né quell’altro della banda che chiamavano ’u ciciru. ’U ghiacciaru si vitti , quando uscì perché l’avevano messo in galera, Januzzu tornò a vedersi e ’u peri ravusi, arrestato pure lui, ma quegli altri due no, quelli erano liberi e furono ammazzati.

A quel tempo c’era gente di Bagheria che possedeva vigneti a Fontana murata. Chi ne aveva reci migghiara cu centu migghiara. Per il lavoro si portavano gli operai di qui e anche donne portavano per cucinare e fare i piatti.

Nicola S. ci andava, non perché gli piacesse il lavoro, questo già lo sappiamno, ci java pi fimmini, pi scaminiari. Non è che andavano in albergo, vuosca vuosca, campagni campagni ,qualche famiglia li accoglieva, ne approfittavano.

C’erano donne che ci stavano e quelle che non ci stavano e parlavano. Una notte lo uccisero, lo misero sopra una giumenta e la fecero arrivare al paese, a Valledolmo.

Chi era stato? Boh!

4. GIACINTO P.

Avevano una grossa fabbrica e un terreno abbandonato.

Se lo prese un bracciante per coltivarlo, giovane e gran lavoratore.

Quella terra persa la fece diventare giardino e vi cominciò a raccogliere.

Erano tempi in cui i giardini di limoni andavano e i soldi ci si prendevano; un bracciante poteva

diventare proprietario, piccolo ma sempre proprietario, poteva vivere meglio.
I padroni rivollero la terra.

-Ma come?-disse Giacinto.- In quel giardino ho messo il mio sangue-

Non se ne andava.

Ma quelli della fabbrica avevano chi mettere in mezzo; misero in mezzo uno che o stava in galera o era latitante; quando era latitante lo aiutavano loro, lo proteggevano, lo nascondevano nella fabbrica.

Bastava dirglielo.

Un pomeriggio d’estate, o era luglio o fu agosto, si sentì dire che avevano ammazzato Giacinto.

Era con la sua lambretta e sopra la lambretta gli spararono, per strada, cadde vicino a un muretto  a secco, in una strada di campagna, non aveva ancora trent’anni.

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5. 'A ZZA  MINICA 'A  TIRRIBILIA

Su scujdò che sua nonna Minica ’a tirribìlia le dicevano.

Ma era una cosa di razza se il fratello della ‘zza Minica era Masi ’u lignutuojtu.

E iddra davvero terribile fu: il genero dalla mafia lo fece ammazzare.

Era canziatu: una volta in un posto si nascondeva, una volta in un altro.

Pure da suo cognato si nascondeva, a casa del figlio della ‘zza Minica, a casa della nuora.

Nni sò nuora ’a bieddra. Così le dicevano: la bella; una cosa inutile, un ribusciatu vicino ’a na fimmina chi si facieva taliari!

A ’ncujtò.

La donna si confidò con suo marito e con la madre di suo marito: ca ’zza Minica.

A’ sò figghiu ci rissi ri chiantarisilla, di fare finta di niente perché niente c’era stato; a suo genero consigliò di cercare e trovare un altro nascondiglio perché la gente sa tutto, anche quello che non dovrebbe sapere, comincia a parlare e sparlare.

Così gli disse: ma il genero mangiò la foglia e pensò che suo cognato non se ne restava buono buono. 

E una sera il figlio della ’zza Minica non tornò a casa e la mattina dopo lo trovarono morto, ucciso a schioppettate.

Chi era stato?

A ’zza Minica ’nna mafia sinni iu. Come suo figlio doveva morire. Ammazzato. Chi il figlio le aveva ammazzato.

Le dissero di cercare dentro le sue tasche.

Rispose che, chiunque fosse stato, morto lo voleva.

Le ricordarono che era padre di cinque figli suo genero.

Rispose che anche suo figlio ne aveva avuti cinque.

U vruricaru vivu. Gli strapparono le cose che aveva in mezzo alle gambe, glieli ficcarono in bocca e vivo lo seppellirono.

I dieci nipoti crebbero.

I più grandi dei maschi erano inquieti.

’A ’zza Minica i chiamò.

-Viniti ’ccà - disse loro.

-Viniti ’cchiù vicinu- disse ai figli del genero.

-Un vi muviti- disse loro.-Ca io vu fici ammazzari ’o patri-

-E picchì- vollero sapere.

-Iddru ammazzò ’a mè figghiu-

Ch’era piatusa ora ’a zza Minica

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Biagio Napoli
 

A Casteldaccia il 3 novembre alle ore 18.00 all''Arsenale delle apparizioni di via Lungarini, appuntamento con la musica della cantautrice palermitana Lucina Lanzara all'Arsenale delle Apparizioni, domenica 3 novembre. 

La cantautrice, che si occupa da anni di musica popolare e sperimentale e che ha al suo attivo quattro lavori, si esibirà accompagnata dalla sua chitarra classica in:TRILOGIA- Monologo in-canto tratto dai suoi tre lavori cantautorali: Il Canto del Sole –De Mare e VoXaS Un monologo in-canto, inteso come monologo in musica, un racconto su note sulle onde del Mediterraneo, suo luogo elettivo di suggestione ed ispirazione. 

Sulla sua voce, potente strumento con un'estensione di tre ottave, hanno scritto critici e giornalisti. Negli ultimi anni si è esibita in Sicilia e in Europa riscuotendo grande consenso di pubblico e critica.

La performance si aprirà con un estratto di “VoXaS – il grano e l’Alba”, storia di un’Alba che si innamora di un campo di grano. Proseguirà col viaggio di Aliante, una barca con le ali che vola sul mare delle passioni umane e si concluderà con il “Canto del Sole”.

Per chiudere ricordiamo ancora l'appuntamento, domenica 3 novembre alle ore 18,00, in via Lungarini, 21 Casteldaccia. Ingresso con rinfresco 10 euro. Per la cena, 20 euro ma occorre prenotare.

 

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