Pubblichiamo uno stralcio dal libro di Vincenzo Noto "Chiesa e mafia: Salvatore Pappalardo, un cardinale in prima linea" (Ila Palma ed.), in cui si rierisce un episodio che coinvolse l'agrario e imprenditore bagherese Michelangelo Aiello, che nei primi degli anni '80 fu processato e condannato per mafia.
In preparazione della Pasqua del 1983 il cardinale Pappalardo, come ogni anno, aveva programmato una celebrazione eucaristica nel carcere dell’Ucciardone.
Un appuntamento al quale teneva tanto per quello che l’incontro poteva rappresentare come richiamo forte alla conversione per gente che si era macchiata di gravi o di piccoli reati.
Era felice, ad esempio, quando poteva impartire la cresima a ragazzi ospiti del carcere di Malaspina con i quali qualche volta ha cercato di intrattenere relazioni epistolari.
Il primo pensiero di tutti forze dell’ordine comprese riguardava il fatto che Cosa nostra non poteva condividere l’impegno della Chiesa.
Ma non fu poca la meraviglia del presule e dei suoi collaboratori, ma anche dei dirigenti del carcere e dei cappellani, quando si accorsero che nessun detenuto si recò al punto convenuto per la celebrazione della messa.
C’era stato un passa parola tra i detenuti che doveva essere interpretato.
Il primo pensiero di tutti, forze dell’ordine comprese, riguardava il fatto che la mafia non poteva condividere il forte impegno della Chiesa, di molti sacerdoti di frontiera e di gruppi di laici che, seguendo le indicazioni dell’arcivescovo di Palermo, si erano andato organizzando creando un clima nuovo all’interno della comunità ecclesiale.
La quale soprattutto dopo la scomunica della mafia nella sessione autunnale della Conferenza episcopale siciliana del 1982, sembrava attraversata da una grande voglia di dimenticare le debolezze del passato per costruire un futuro di grande impegno a favore della legalità.
Attraverso il rifiuto di andare a messa, si pensava, i detenuti dell’Ucciardone, ma soprattutto i loro referenti esterni, volevano mandare a Pappalardo un chiaro messaggio da tenere nel dovuto conto nella sua attività pastorale.
Era come se lo avessero invitato a darsi una calmata per evitare ulteriori incidenti.
Altri davano letture piuttosto terrificanti dell’episodio.
Si diceva che la mafia voleva isolare Pappalardo e aveva mandato un segnale all’esterno, a tutti i suoi affiliati, fino alla programmazione di un eventuale omicidio.
E c’è stato pure chi, ma certamente senza conoscere bene il carattere del presule palermitano, gli consigliava di prendersi un po’ di riposo, se non proprio di cambiare aria e di accettare qualche eventuale incarico in Vaticano.
Tutto era possibile, se si pensa che soltanto tre mesi dopo veniva compiuta la strage di Via Pipitone Federico a Palermo, per uccidere il giudice Rocco Chinnici.
Se c’era chi ovviamente temeva per la vita del cardinale, c’era pure chi escludeva qualche gesto insensato della mafia che mai e poi mai avrebbe osato sfidare le istituzioni e la Chiesa macchiandosi di un simile delitto.
Al Cardinale venne affidata dalle forze di polizia una scorta, che fu, per un presule che voleva sentirsi realmente libero, una pesante catena al piede. Per la serenità del Cardinale e di quanti partecipavano ai suoi continui movimenti bisognava uscire da una situazione che si era fatta particolarmente pesante. ………………………………………………………………….
Personalmente, indeciso sulla chiave di lettura di quel rifiuto, desideroso di poterne sapere di più dei chiacchiericci che ovunque venivano fatti senza aggiungere nulla di nuovo e di significativo, ma anche nella qualità di direttore dell’Agenzia “Mondo cattolico di Sicilia”, ho voluto fare le mie indagini, informando di tutti i miei movimenti il Cardinale Pappalardo. Il quale non mi disse né si né no, ma certamente non mi mise nessun impedimento.
Proprio alla vigilia della sua partenza per qualche giorno di vacanza fuori Sicilia mi sono messo in contatto con il signor Michelangelo Aiello, ritenuto allora un autorevole esponente della mafia di Bagheria, nel cosiddetto triangolo della morte, dove si erano verificati gravissimi delitti.
Sono andato a incontrarlo in una sua azienda a Bagheria. Mi parlò anzitutto di un suo fratello sacerdote, gesuita, che però aveva lasciato il sacerdozio e da lui era stato “scomunicato a vita”
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Manifestai all’Aiello, nel suo studio di Bagheria, le ragioni della mia presenza e gli chiesi una sua lettura di quanto era accaduto all’Ucciardone durante la visita di Pappalardo in preparazione della Pasqua.
Rispose subito che, a suo giudizio, i giornali scrivevano stupidaggini e che non dovevano avere nessuna paura per la vita di Pappalardo.
E mi spiegò che cosa era realmente accaduto nel più famigerato carcere italiano in occasione dell’ultima visita dell’Arcivescovo di Palermo. I picciotti – li chiamava così – erano rimasti scontenti del Cardinale perché in una visita precedente gli avevano consegnato una lettera con la quale chiedevano all’autorità giudiziaria misure più blande per il cambio della biancheria e le visite dei parenti.
Speravano tanto che Pappalardo quella lettera la consegnasse ai dirigenti della Procura, ma non avendo visto nessun effetto e pensando che se ne fosse completamente fregato ritennero di dargli una lezione.
Lezione che volevano dargli ancora prima, nel corso di una visita natalizia, ma che lui l’Aiello, aveva evitato perché in quel periodo si trovava in carcere all’Ucciardone e che aveva fatto di tutto per fare rientrare il progetto di dissenso.
Per Pasqua non era più in carcere e i "picciotti "si erano permessi di organizzarsi mi ripetè parecchie volte che dovevano considerarlo un episodio isolato e che non dovevamo avere nessuna paura per la vita del Cardinale.
Di corsa sono andato al porto, dove il cardinale doveva prendere la nave per Napoli, sono riuscito a salire, a raccontare a lui e al suo segretario quanto mi aveva riferito l'Aiello, per farlo partire abbastanza rassicurato, con una versione più certa che proveniva da ambienti bene informati in materia.
Il cardinale mi disse successivamente che ricordava bene la lettera che gli era stata consegnata dai carcerati e che l'aveva fatta pervenire ai destinatari della Procura, ma poi nessuno gliene aveva più parlato e non sapeva se la lettera avesse sortito qualche risultato.
Ovviamente, i picciotti, non vedendo risultati concreti alla loro richiesta, attribuivano la responsabilità di tutto a Pappalardo, accusandolo di essersene infischiato delle loro esigenze.