Negli ultimi mesi l’immagine di Bagheria è stata mortificata da un crescendo di atti vandalici e intimidatori. Sostanzialmente, niente di nuovo: la città subisce, incassa il colpo, e si alzano coretti di solidarietà come folate nel deserto. Il vento delle parole spettina la sabbia ma le aride dune restano comunque li.
Quello che un tempo era un agrumeto di profumi e speranze ora è un territorio in cemento armato, a tratti depotenziato, ferito e ripiegato su se stesso, dove molte attività culturali difficilmente superano il rettangolo di una bandiera di partito e dove ad alzare la testa si corre ancora un forte rischio: quello di inimicarsi gli adepti di una mentalità pseudo-mafiosa dilagante.
Una mentalità che, in realtà, in molti casi c’entra poco con i cosiddetti affiliati della mafia.
Perché, come ha affermato Giovanni Falcone: “Per avere la mentalità mafiosa non c’è bisogno di essere criminali”.
Dunque, si tratta di un complesso di atteggiamenti che si riverberano nel vivere quotidiano e che ha reso e rende questa città terreno particolarmente fertile per la mafia, quella vera, quella del piombo, del tritolo, del controllo economico del territorio, del racket, della droga, quella con solidi e insospettabili collegamenti anche oltreoceano.
La mentalità mafiosa rappresenta per la vivibilità cittadina un ostacolo invisibile ma pericolosissimo che prende forma e si espande ogni volta che si imbastiscono modi “clientelari” di rapportarsi con le persone e le istituzioni.
Non sempre ci si rende conto di stare contribuendo ad alimentare il sistema.
Ciò probabilmente, a causa di una percezione etica e morale tarata comprendendo nella “normalità delle cose” il mancato rispetto di alcune regole democratiche, nonché ( in diversi casi) per una connaturata o consuetudinaria diffidenza nei confronti di tutto ciò che sia attinente alle forze dell’ordine.
Al vertice della piramide vi sono i cosiddetti professionisti della mentalità mafiosa, sono gli uomini e le donne che hanno basato le loro brillanti carriere su un meccanismo ben consolidato: imparando a dissimulare e a voltare la faccia quando ci sarebbe da osservare e denunciare, dando, all’occorrenza, un colpo di spugna alle norme e alle leggi per aiutare gli amici o gli amici degli amici,; o (quando sanno di aver toccato clamorosamente il fondo) praticando ad arte un rigoroso silenzio nella speranza che questo si trasformi in una coperta abbastanza lunga per soffocare e spegnere il fuoco di scottanti vicende e palesi imbrogli.
Spesso questi professionisti dello pseudo-mafioso sono mostri generati da una copiosa cattiva politica che, per aberrante consuetudine, ha la pretesa di “sistemare i propri” nei posti chiave a prescindere dalle reali competenze di costoro e a discapito della Bagheria onesta.
Così, ogni volta che qualcuno, per spocchia o per copertura della malapolitica, si arroga il diritto di non rispettare le regole, si creano inevitabilmente le premesse per “infiltrazioni” che, prima o poi, andranno a destabilizzare le fondamenta stesse del Palazzo, segnando, in modo drammatico, lo sviluppo e il futuro del territorio.
Bagheria riuscirà a svegliarsi da questo incubo?
Di certo, la storia di questa città insegna che fare spallucce e limitarsi a dire: “ è sempre stato così” non aiuta.
Però, iniziare a pretendere, nei vari ambiti, maggiore meritocrazia e trasparenza magari potrebbe indebolire in modo significativo sia i mafiosi, sia gli pseudo-mafiosi.
Ma per fare ciò è necessaria una collettiva volontà di cambiamento: è troppo sperare che non si sia passati dall’assopimento al coma irreversibile?
Giusy La Piana