Servitù di uso pubblico ed espropriazione- di Antonino Cannizzo

Servitù di uso pubblico ed espropriazione- di Antonino Cannizzo

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Di recente il C.G.A.R.S., con la sentenza n. 253 del 25 marzo 2021, ha affermato che la mera occupazione di un terreno da parte di un’amministrazione comunale non sia ex se elemento idoneo a dimostrare che il terreno stesso fosse stato gravato tempo immemorabile da una servitù di uso pubblico.

Invero, la costituzione di una servitù di uso pubblico da tempo immemorabile presuppone la sussistenza di una volontà diretta alla destinazione ad uso collettivo del terreno, ossia la convinzione in capo alla collettività di esercitare un diritto di uso. Dunque, elemento indefettibile è il c.d. animus dicandi ad patriam, cioè l'intenzione di asservire il bene all'uso pubblico.

Peraltro, nel caso di specie si era verificata l’occupazione forzata dei terreni, elemento di per sé idoneo a dimostrare che il privato non avesse prestato alcun consenso utile a radicare la c.d. "dicatio ad patriam".

Invero, la c.d. “dicatio ad patriam” è un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, che si realizza allorquando il proprietario pone volontariamente in modo continuativo un proprio bene a disposizione della collettività, “assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità e dallo spirito che lo anima”(C.G.A.R.S. sent. 734 del 2020).

Inoltre, nel caso esaminato dal C.g.a.r.s., la circostanza che il terreno presentava opere viarie, non è stata ritenuta sufficiente ad autorizzare la p.a. a considerare le aree quali aree demaniali, né a trasformare in modo irreversibile lo stato dei luoghi, trasformandole in via di fatto in strada pubblica, senza l’adozione di un giusto procedimento espropriativo.

Infine, l’occupazione dei terreni, lungi dal dimostrare l’esistenza di una servitù di uso pubblico, disvela, invece, l’intenzione dell’amministrazione di avviare una procedura espropriativa volta alla realizzazione di una strada pubblica.

In ogni caso, lo scopo cui mirava la p.a., ossia l’irreversibile trasformazione dei luoghi, non poteva essere raggiunto mediante la mera utilizzazione della servitù di uso pubblico, ma con l’espropriazione.

Dunque, quand’anche fosse esistita e dimostrata la sussistenza di una servitù di uso pubblico, ciò non avrebbe comunque legittimato l’Amministrazione a realizzare unilateralmente e autoritativamente una strada pubblica, ossia a trasformare lo stato dei

luoghi, realizzandovi un’opera pubblica.

Invero, sul punto la giurisprudenza ha precisato che la costituzione di una servitù non vale a privare il titolare dell'area della proprietà sul bene, sicché la realizzazione di un'opera pubblica avrebbe comunque richiesto, per determinare il trasferimento della proprietà, un decreto di espropriazione e una prodromica dichiarazione di pubblica utilità (Consiglio di Stato sez. IV, 15/03/2018, n.1662).

Dunque, non è possibile invocare la preesistenza di una servitù di uso pubblico per non restituire i terreni e non risarcire il titolare del diritto di proprietà sul bene.

Del resto, è ormai pacificamente esclusa l’operatività dell’istituto della c.d. accessione invertita, che consentiva alla p.a. di divenire proprietaria del bene per effetto di un comportamento di fatto, dunque in assenza di un giusto procedimento regolato dalla legge.

Dunque, la p.a., a fronte dell’avvenuta occupazione in via di fatto del bene, si pone difronte a due alternative: restituire il bene nelle condizioni in cui si trovava prima dell’occupazione; adottare un provvedimento di acquisizione cd. sanante, o, ancora, acquistare il bene al valore di mercato.

Avv. Antonino Cannizzo