Il giornalista e scrittore R. Kapuscinski ha raccontato un significativo aneddoto sull’ossessione per la statuaria equestre dell’ultimo Shah di Persia Reza Phalevi.
A un certo punto, per spontanea reazione popolare, manipoli di dissenzienti si specializzarono in vere e proprie azioni di guerriglia antistatuaria.
Ma più questi ne buttavano giù, più lo Shah ne faceva erigere: e siccome la punizione per gli antistatuari era la pena di morte, a poco a poco l’intero paese fu riempito di monumenti equestri.
Di per sé, questo episodio non rivela niente di specificatamente persiano, ma dice molto di uno dei tratti distintivi di qualsiasi forma di potere non democraticamente fondato: l’incapacità costitutiva a riconoscere il ridicolo, a evitarlo, a non farlo diventare, pur tragicamente deformato, una rappresentazione ufficiale di quel potere stesso.
Per questo niente come l’irriverenza sarcastica e abrasiva di giullari, comici, caricaturisti ( Daumier, Hogart o Vauro ed Ellekappa) ha saputo sferzare i (pre)potenti di tal fatta, mettendone a nudo la pochezza; mostrando quanto sia fasulla, posticcia, menzognera la loro retorica.
L’umorismo, esercizio sommo dell’intelligenza umana, è una macchina cognitiva al tempo stesso impietosa ed efficace: e lo è quanto più il potere dei prepotenti manifesta la vocazione a prendersi eccessivamente sul serio. Un potere, quello dei prepotenti, intrinsecamente fondamentalista.
Il potere mafioso è un potere di prepotenti, profondamente radicato in ampi strati della nostra società. E non c’è radicamento senza condivisione, senza consenso.
Per questo, forse, sarebbe opportuno che, parallela all’azione di contrasto portata avanti dalla Magistratura e dalle forze di Polizia, scorresse un più ampio impegno volto a demistificare non la mafia, ma i mafiosi, gli individui concreti che vivono la loro attività criminale come uno status socialmente riconosciuto e certificato dall’omertà diffusa.
Perché dietro quello status, a parte l’uso sistematico della violenza, dell’intimidazione, della sopraffazione, non c’è nulla. Un vuoto di intelligenza, di valori, di civiltà riempito di violenza e sopraffazione.
Pino Caruso, scrittore, intellettuale e uomo di spettacolo siciliano, ha scritto: “La mafia va attaccata anche sul piano del ridicolo, va smontata nella sua concezione del male e nella sua retorica dell’onore”. In questo senso, negli ultimi dieci anni, qualcosa ha cominciato a muoversi. Si pensi al musical ‘mafioso’ di Roberta Torre, Tano da morire; o ai mafiosi siculo americani sul lettino dello psicoanalista nel serial televisivo The Sopranos.
Quei mafiosi mettono in mostra non la falsa retorica del paternalismo mafioso, ma le debolezze, le nevrosi, le inadeguatezze di singoli uomini fagocitati dalla loro stessa scelta di violenza. Su quel lettino sarebbe facile immaginare lapsus come
"Quel giudice era come il calcio sui maccheroni "(Gaspare Mutolo); oppure "Signor Giudice, io ho fatto reati minimi e massimi, ma sempre con onestà" (Carmelo Grancagnolo): invece si tratta di deposizioni processuali (Di Stefano A., Buscemi L., Signor Giudice,mi sento tra l’anguria e il martello, Mondadori, Milano, 1996).
I mafiosi, come lo Shah di Persia, sembrano sconoscere il senso del ridicolo e, come tutti i prepotenti, si prendono troppo sul serio: La mafia è uno degli organismi più democratici. Si vota per alzata di mano, niente scrutinio segreto ha dichiarato il mafioso Leonardo Messina.
Presunzione, tracotanza e insensibilità al ridicolo: altro che democrazia! In fondo, come ebbe a dire Benedetto Croce dello stato fascista, si tratta di onagrocrazia, ovvero di potere (violento e illegale) gestito, asininamente, da asini. Anche se, talvolta, tale asininità sfiora, involontariamente, ma con qualche tratto di genialità, il surreale: La mafia c’è, ma non lo so.
Una sentenza memorabile, non c’è che dire. L’ha pronunciata un comico di genio, magari Groucho Marx, si penserà.
No, purtroppo. Il copyright è di un uomo politico siciliano che con la mafia ha avuto più di qualche problema, ma che è stato certo dell’esistenza di quel fenomeno soltanto davanti alle pistole dei killers che lo hanno traghettato alla vita eterna.
Sabato 31 gennaio, Teatro Branciforti, h. 21:00 - ingresso libero
Programma I Boss: quelli che... le sparano grosse