Il pecoraio D’Anna aveva una sola ambizione: comprare quel terreno di Mongerbino dove egli pascolava le sue greggi per gentile concessione del proprietario, Don Vincenzo Bartolone.
Quel terreno roccioso ma sempre verde, perché anche durante l’estate beveva in più punti lo scolo delle acque lungo le rocce della montagna che si eleva a destra, era un pascolo perenne; e gli consentiva, a parte la transumanza quotidiana, di avere un luogo sicuro dove pascolare le sue bestie.
E poi era un posto fresco, panoramico, ameno: persino le sue pecore parevano più allegre quando brucavano l’erba di Don Vincenzo.
Così dall’estate del 1925 il pastore D’Anna, ogni volta che incontrava Don Vincenzo, prese la buona abitudine di chiedergli di vendergli quegli 8-10 ettari di pascolo, di cui egli, certamente, non aveva che farsene.
“Don Vicè, mi vinnissi Mongerbino !”
“E picchì ti l’aiu a vinniri? Un t’u godi tu? “
“ E vossia chi si nni fa?”
“ ‘Un t’interessa! Era ri me nannu! “
Questo era più o meno il dialogo che si ripeteva fra Don Vincenzo Bartolone e il pastore D’Anna ogni volta che si incontravano, lì sul promontorio di Mongerbino, in petto al mare, dove Don Vincenzo si recava abbastanza spesso per accudire all’uliveto che i suoi antenati avevano rubato al pascolo ivi imperante, due o tre generazioni addietro.
Ma a furia di dover dire sempre la stessa cosa, e cioè che egli non vendeva quel terreno a lui del tutto inutile perché “era di suo nonno” ( talvolta si appellava al vecchio proverbio “ cu accatta acchiana e cu vinni scinni”), Don Vincenzo cominciò ad entrare in crisi, e a contrastare con sempre minore convinzione l’invito a vendere del pecoraio D’Anna.
Alla fine, era l’estate del 1927, incontrandosi ancora una volta, il colloquio tra i due fu inaspettatamente diverso.
“ Don VIcè, mi l’avi a vinniri stu tirrenu?” E lo disse col punto interrogativo. Anzi, come in un accorato appello.
Don Vincenzo, non si sa se per fastidio o per bontà, rispose: “ E pigghiatillu! “
E il D’Anna inaspettatamente radioso.
“Quantu ci aiu a dari?”
“ Chiddi ca mi voi dari mi du’ “
“Tricentuliri…va beni ?! “
“Bonu…bonu! “
E Don Vincenzo si levò quel “suprossu”.
D’Anna cominciò a raggranellare con impegno e con parsimonia le trecento lire che egli, senza averle, aveva stimato che potesse valere il pascolo di Mongerbino.
E, con veri sacrifici, nello spazio di quattro, cinque anni, riuscì a pagare il prezzo da lui stesso stabilito.
Fra i due, niente carta bollata, niente scritture, nè pubbliche, né private,niente ricevute.
Solo la parola.. La parola di due galantuomini.
Chè anzi, anche quando il D’Anna ebbe finito di pagare le trecento lire, un po’ per un motivo, un po’ per un altro, la formalizzazione giuridica della vendita presso un notaio venne rimandata per decenni.
Non c’era la loro parola? E perché dare al Governo le spese ei diritti su una vendita che valeva così poco? Il catasto e i notai potevano aspettare.
Venne la guerra, la II Guerra Mondiale; i figli di Don Vincenzo Bartolone erano cresciuti e l’atto di vendita di Mongerbino non era stato ancora fatto.
A loro dire, quell’atto non si doveva più fare, perché D’Anna era stato in malafede.
Dicevano che egli non aveva voluto l’atto notarile perché in tal modo Don Vincenzo continuava a pagare la “fondiaria” anche per il D’Anna. Infatti le cartelle esattoriali arrivavano indistintamente per l’uliveto e per il pascolo.
E questo non per un anno o due , ma per oltre vent’anni.
Si guardasse bene, dunque, il genitore di andarci adesso dal notaio visto che le trecento lire date un tempo a spizzichi e bocconi, certamente se le era mangiate il fisco, con le tasse pagate sul pascolo del D’Anna, il quale allegramente se ne fregava dei suoi doveri e obblighi di presunto proprietario.
Finita la guerra le pecore di Mongerbino cominciarono ad essere sempre più spesso disturbate da uno strano afflusso di gente.
Durante la guerra infatti, lungo il perimetro roccioso del promontorio proteso sul golfo di Palermo, erano state costruite alcune postazioni militari per il controllo delle acque e del transito sul golfo.
Ufficiali e soldati avevano cominciato a popolare quel terreno verde e roccioso. Ma nulla allora lasciva presagire che quell’incontro potesse durare all’infinito. Era senza dubbio un fatto transitorio.
Invece, a causa della bellezza dei luoghi, il soggiorno sul promontorio di Mongerbino lasciò un vuoto nell’animo degli addetti alle postazioni e nel ricordo di tutti i militari che avevano avuto occasione di frequentare la zona..
E così negli anni che seguirono essi non cessarono di ritornare sul posto con le mogli, con gli amici, con i figli: a visitare quei luoghi che non erano stati da paradiso, solo per i pericoli e le tristezze della guerra; ma adesso sì, con la pace erano un vero Eden.
Iniziò il flusso turistico su Mongerbino, sulle sue balze rocciose, sui fondali e sui colori del suo mare, sull’arco azzurro divenuto celebre ben presto.
Si profilò la valorizzazione del posto, venduto “sulla parola” con una vendita mai eseguita e mai formalizzata come per legge.
Il pastore D’Anna si ricordò di avere comprato quel terreno venti o venticinque anni prima, e disse a Don Vincenzo che era tempo di tornare dal notaio a mettere nero su bianco.
E i due galantuomini, dopo un quarto di secolo, sottoscrissero l’atto: alla presenza di un notaio non più “regio”, ma delegato dalla Repubblica e dall’intero Popolo Italiano, anche se con la studiata assenza dei figli e dei nipoti dei contraenti. I quali certamente non avrebbero capito; così come non lo capirono quando, a cose fatte, ne vennero a conoscenza.
autore: Vincenzo Monforte (1937/1999)
tratto dal volume Aspra e il suo territorio ricerche e testimonianze
a cura di Umberto Balistreri