Riflettendo sul nostro recente passato politico-sociale (il cosiddetto passaggio (!) dalla prima alla seconda Repubblica) o sul nostro presente, a muovere dal microcosmo cittadino, succede talvolta, forse per deformazione “professionale” nata dalla convivenza abituale col mondo cosiddetto “antico”, di sentire riaccendere nella memoria tracce, anche esili, di analogie di situazioni, di modi di pensare e di agire, e di ritrovarle, non certo per un inutile esibizionismo di vuota erudizione, ma quasi per reazione a quel “niente di nuovo sotto il sole” che, nella sua ambivalente saggezza, potrebbe spingere ad una passiva e consolante (ma fino a che punto?) accettazione della realtà.
Il riferimento va al famoso Demostene, politico ed oratore ateniese (384-322 a.Cr.), di cui si ricordano in particolare le quattro orazioni cosiddette “Filippiche”, pronunziate per difendere la libertà di Atene e della Grecia tutta contro la politica egemonica di Filippo II il Macedone, che sembrava non trovare più alcun ostacolo ad una totale e definitiva affermazione.
Come mai – si chiedeva Demostene in quei suoi appassionati discorsi - i suoi concittadini erano arrivati al punto quasi di non ritorno, da abdicare alla loro libertà?
Da qui, le sue riflessioni critiche molto dure sull’ “inazione”, come male di fondo della vita politica ateniese: “…l'inerzia e l'indolenza quotidiana, tanto nella vita degli individui quanto in quella delle città, non si rende percepibile subito, ogni volta che si commette qualche negligenza, ma diventa palese quando le vicende giungono al loro epilogo” (Filippica IV 7) ; e ancora : “…Se invece ciascuno se ne starà inerte a perseguire quello che desidera e a cercare il modo di non fare nulla personalmente, in primo luogo non è immaginabile che possa trovare mai chi lo farà…” (Filippica III, 75).
Considerazioni “inattuali”(!) per il presente, a fronte di una sempre più crescente e sempre più allarmante crisi di partecipazione attiva alla vita politica in riferimento sia al microcosmo cittadino (“Ci deve pensare il Comune!”) sia al macrocosmo nazionale ed europeo (un astensionismo dal voto sempre più crescente), al quale si vorrebbe porre il (falso e fuorviante) rimedio, ad esempio, del premierato diretto (ci pensa Giorgia!).
Riguardo poi ai rappresentanti politici scelti, l’oratore ateniese sottolineava che anche quella era una delle cause che avevano portato alla situazione di quel momento, visto che i cittadini si erano affidati “…a coloro che preferiscono compiacere la gente piuttosto che fare le proposte migliori. Di questi, alcuni, o Ateniesi, sono impegnati solo a salvaguardare quello stato di cose che garantisce loro prestigio e potere e non si curano affatto delle conseguenze future, e dunque neppure voi pensano che dobbiate curarvene…” (Filippica III 2)”.
Questo succedeva allora. Oggi e nel nostro passato prossimo, possiamo dire di non (sic!) ricordare politici che vendono e hanno venduto sogni, promettendo riduzione di tasse per tutti (e praticando, invece, condoni camuffati per pochi, i più ricchi), creazione di milioni di posti di lavoro, ponte d’oro (per gli interessi affaristico-mafiosi), rinascita del Sud (con la risolutiva -sic!- autonomia differenziata) nei settori nevralgici – sanità, scuola, lavoro -, recupero dell’”autentico” welfare tramite i bonus-elemosina, in nome del Padre, della Patria, della Famiglia. E intanto, si sono consolidati e si continuano a consolidare poteri e privilegi da “casta” per la “casta”.
Demostene doveva riconoscere che quella classe politica (quella di allora, non questa di oggi, ci mancherebbe!) otteneva successo perché era cambiata la mentalità dei cittadini. “…Allora c'era, o Ateniesi, c'era qualcosa nel modo di pensare della maggior parte della gente che adesso non esiste più… (Filippica III,36); “…Che cos'era dunque? Niente di particolare o di sofisticato, ma il fatto che tutti quanti avevano in odio quelli che prendevano denaro da chi voleva dominare…, ed era pericolosissimo essere riconosciuti colpevoli di corruzione e severissime erano le pene con le quali si puniva questa colpa, senza indulgenza alcuna e senza remissione (Filippica III,37); “…Tali erano le punizioni e le pene che infliggevano a coloro che scoprivano corrotti, che ne iscrivevano persino il nome su una stele (Filippica III,45); “ … Ora tutto ciò è stato venduto come al mercato, e in cambio sono state introdotte quelle che sono le cause della rovina e del malessere della Grecia. Quali sono? L'invidia se qualcuno si lascia corrompere; il riso, se lo confessa; il perdono per chi è dimostrato colpevole; l'odio per chi lo rimprovera (Filippica, III,39); “…diffidiamo gli uni degli altri, ma non di chi commette torti nei confronti di tutti noi (Filippica, III, 35)”.
Ad Atene non si usavano mezzi termini: chi corrompeva o si lasciava corrompere era oggetto di “odio” diffuso e subiva da parte dell’opinione pubblica una severa condanna sociale, fino al nome impresso su una stele, che motivava una durissima repressione penale. Poi, la “questione morale”, come diremmo oggi, era stata omessa, capovolta nel suo contrario, addirittura cancellata, (allora, non oggi!).
Così, allora (non oggi!) essere indagati o condannati diventava un titolo di merito per fare carriera, chi negava ogni addebito e resisteva senza dare le dimissioni era ammirato e invidiato, mentre chi confessava veniva deriso, anche per chi era preso con le mani nel sacco scattava la giustificazione, mentre oggi (non allora!) i magistrati che esercitano il controllo di legalità sono, di fatto, contestati, perfino dall’attuale Presidente del Consiglio in carica (alla faccia dei principi costituzionali) e diffamati pesantemente anche da un passato presidente del Consiglio, che ha raggiunto la beatitudine nell’unico paradiso (fiscale) a lui confacente. Il tutto con il servile ossequio dei mezzi di informazione (“è la democrazia, bellezza!). Così, oggi, assistiamo allo spettacolo da cabaret (se non fosse terribilmente grave) di un Presidente di Governo Regionale che, (non me ne vogliano i due nostri simpatici comici) come “Toti” dichiara la sua assoluta innocenza ma, come “Totino”, fugge dal regolare processo e patteggia una pena da “non” colpevole.
“…diffidiamo gli uni degli altri, ma non di chi commette torti nei confronti di tutti noi (Filippica, III, 35)” sosteneva ancora Demostene per allora.
E oggi? L’ammirazione adorante per personaggi quali l’“avvocato” Agnelli, il “divo” Giulio, il grande “esule” di Hammamet, il “divino” Silvio, non è parsa, ieri, eticamente e socialmente inaccettabile, come non pare, oggi, per ogni rigurgito neofascista.
Se questo era diventato, allora non oggi, il senso etico comune, l’ateniese si rendeva conto che avrebbero fatto carriera non uomini interessati al bene comune, ma i peggiori tra loro e lo contestava ai suoi concittadini: “…siete giunti a tal punto di follia, di insania o di non so neanch'io cosa…, che invitate a parlare uomini prezzolati, tra i quali alcuni non potrebbero neppure negare di esserlo, o per le villanie di cui sono capaci, o per le loro parole di astio o di scherno, o per qualsiasi altro motivo, e vi mettete a ridere se diffamano qualcuno (Filippica III, 54) “.
E oggi, e ieri l’altro, non abbiamo fatto esperienza (e, purtroppo, continuiamo a farla) dell’incultura, della volgarità di parole e di gesti, di uno stile di vita a dir poco indecente di una parte non indifferente del ceto politico che ci rappresenta, a dispregio della Costituzione che esige che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore” (art.54)?
Si può fermare qui il confronto, purtroppo impietoso, tra i mali di una società “antica” e quelli dell’attuale nostra società. Oggi non mancano i mezzi per porre ad essi rimedio, anche se il percorso è lungo e difficile. Certamente nulla può cambiare se ciascuno si occupa solo dei propri affari, perché “tanto le cose sono andate sempre così”, perché “noi italiani ( e siciliani, in particolare) siamo fatti così”, perché “in fondo tutti rubano”, perché “è meglio aspettare che sia qualcun altro a prendere l’iniziativa”, perché “i pochi “idealisti” non avranno il consenso politico necessario per attuare i propri principi”, perché “il nuovo che non si conosce può essere peggio del vecchio conosciuto”. La verità più semplice e immediata è che spetta a ciascuno di noi, sulla base di una profonda rivolta morale e culturale, preparare le condizioni per realizzare una politica che rispecchi e traduca in atto i principi della nostra Costituzione antifascista e democratica.
Manlio Schiavo