Franco Lo Piparo vincitore del premio Viareggio:'Merito del mio successo è innanzitutto Gramsci'

Franco Lo Piparo vincitore del premio Viareggio:'Merito del mio successo è innanzitutto Gramsci'

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Ieri mattina oltre a congratularci con il professore Franco Lo Piparo per il prestigioso riconoscimento ottenuto, abbiamo voluto fargli qualche domanda sul suo saggio.

 

Cosa si prova ad avere assegnato un Premio così prestigioso come il Viareggio?

Confusione e disorientamento. Non faceva parte delle mie ambizioni. La vita è imprevedibile. Questo piccolo libro è andato in libreria gli ultimi giorni di gennaio e da allora ha suscitato sui giornali molte discussioni e molte critiche. Ne hanno scritto tanto i giornali nazionali, e persino l’Osservatore Romano gli ha dedicato una intera pagina. 

Tra l'altro questo riconocimento segue a distanza di quaranta anni il premio Viareggio di poesia assegnato ad Ignazio Buttitta.

E per completare il quadro va anche detto che a Dacia Maraini, che pur non bagherese dal punto di vista anagrafico, sul nostro paese ha scritto tanto ed ha nutrito un particolare rapporto, è stato assegnato quest'anno  il premio Viareggio-Rèpaci alla carriera

Come spieghi questo successo?

Il merito è anzitutto di Gramsci. Sono passati più di vent’anni dal collasso inglorioso dei paesi comunisti, eppure il pensiero e l’avventura umana e politica di Antonio Gramsci, entrato in carcere come segretario del Partito Comunista d’Italia, continua a essere fonte di suggerimenti utili a capire il mondo post-capitalista e post-comunista in cui viviamo.
I due carceri di Gramsci ha suscitato interesse forse perché ha messo in luce questi aspetti radicalmente innovativi della riflessione gramsciana.

Ci puoi spiegare meglio?

Gramsci in carcere è un uomo in crisi. Sa che la generosa utopia comunista della liberazione dell’uomo si era trasformata in una delle più crudeli dittature.

Da quel grande intellettuale quale era non si accontenta di individuarne la causa nella cattiva politica di Stalin ma si interroga sulle ragioni, culturali e filosofiche, di tale esito.

I Quaderni sono, più che un classico del comunismo, il diario intellettuale di un travagliato e incompiuto ripensamento critico di alcuni dei fondamentali pilastri della cultura comunista novecentesca.

Tutto questo ha avuto dei risvolti umani dolorosissimi. Nei terribili anni Trenta non c’era spazio per un comunismo non stalinista: o si era comunisti e stalinisti o si fuoriusciva dal comunismo. E la fuoriuscita dal comunismo era considerata un tradimento che si pagava con la morte e/o il discredito personale.

Gramsci aveva moglie e figli in Unione Sovietica e sapeva bene che una chiara manifestazione di dissenso avrebbe comportato seri rischi per loro. Ciò lo rendeva prudente e attento alle parole che usava.

Tu sostieni che il lascito culturale di Gramsci sia stato manipolato e che addirittura potrebbe mancare uno dei suoi ultimi Quaderni. Puoi dirci qualcosa?

È un aspetto del libro che ha fatto molto discutere. Ho continuato a lavorarci tutta l’estate e adesso sono ancora più convinto che sia stato fatto scomparire uno dei Quaderni. Nonostante le critiche un risultato l’ho ottenuto.

In un articolo sul «Corriere della Sera» (6 giugno) ho fatto notare la presenza di una mano estranea sulla copertina di un quaderno e ho chiesto a Giuseppe Vacca, Presidente della Fondazione Gramsci, di nominare una commissione per esaminare la questione direttamente sui manoscritti originali e senza pregiudizi ideologici.

La commissione è stata nominata immediatamente, ne faccio parte anch’io, abbiamo già fatta una riunione metodologica a luglio, alla fine di questo mese dedicheremo un’intera giornata all’esame dei manoscritti.

Il libro è stato aprezzato anche per la sua scrittura chiara e per il suo andamento quasi da libro giallo. Ha perfino una conclusione imprevedibile. Cito: «i Quaderni esistono grazie a Mussolini e a Togliatti». Addirittura Mussolini. Puoi spiegarci questo aspetto intrigante?

Mussolini sapeva che Gramsci era un comunista dissidente. In un articolo del dicembre 1937 ne scrive in questi termini: «è morto di malattia, non di piombo, come succede ai generali, ai diplomatici, ai gerarchi comunisti in Russia, quando dissentono – anche un poco – da Stalin e come sarebbe accaduto a Gramsci stesso se fosse andato a Mosca».

Forse anche in ragione di questo, in carcere gli concede privilegi che gli altri detenuti politici non avevano: ha una cella tutta per sé, dispone di quaderni e penna, riceve libri e riviste che il suo amico Sraffa gli faceva avere tramite una libreria di Milano.

Tenendo conto di quello che accadeva in quegli anni in URSS e di quanto ebbe a dichiarare Togliatti poco prima di morire (Gramsci, al mio posto si sarebbe fatto uccidere) azzardo nel libro questa conclusione: «La mente di Gramsci nel carcere fascista trovò, nell'Europa continentale degli anni trenta, l'unico luogo in cui potesse lavorare».