Sabato 11 dicembre alle ore 18.00 a Palazzo Aragona Cutò si svolgerà un seminario sulla figura di Angelo Fiore.
Interverranno, oltre alle autorità politiche che porteranno i saluti, in veste di relatori, Natale Tedesco e Tommaso Romano, con Maurizio Padovano coordinatore della discussione. Perchè possa portare elementi alla discusssione, riproponiamo l'articolo, pubblicato sull'edizione della quotidiano "La Repubblica" ed. di Palermo, dedicato da Salvatore Ferlita ad Angelo Fiore
"Strana isola la Sicilia. Da qualche tempo invia alla nostra letteratura disperati messaggi, lucidi rendiconti di un disastro permanente: è la provincia più viva della narrativa italiana, forse perché in bilico tra il nuovo che non può nascere e il vecchio che ferocemente non vuole morire".
Così Piero Dallamano, uno dei grandi critici militanti del secolo scorso, salutò sulle pagine di "Paese Sera", del 25 settembre 1964 l'uscita de "Il supplente" (ed. Vallecchi) di Angelo Fiore.
Il capolavoro dello scrittore palermitano che sarebbe poi stato ripubblicato nel 1987 da Pungitopo, con l'introduzione di Natale Tedesco.
" La provincia più viva della narrativa italiana" scriveva dunque Dallamano: negli anni più gloriosi in cui la scuola di Palermo offre un contributo determinante alla nascita del gruppo 63; Leonardo Sciiascia dà alle stampe Il consiglio d'Egitto; per non dire di Antonio Pizzuto e di Stefano D'Arrigo.
Insomma, il dispiegamento di forze è davvero notevole. A questo fervore creativo s'aggiunge l'oscuro e respingente professore palermitano Angelo Fiore ( scoperto da Mario Luzi e da Renato Bilenchi), di cui un anno prima aveva visto la luce la raccolta di racconti "Un caso di coscienza"(Lerici): inquietante biglietto da visita di uno scrittore che sulle macerie del realismo innalzava la sua sovrastruttura narrativa, popolata da personaggi abietti e a volte agghiaccianti, votati al fallimento, tormentati da visioni mostruose.
Con "Il supplente" Fiore conferma in pieno le sue doti, ed ecco il tripudio della critica che lo addita quale nuovo e soprattutto grande scrittore siciliano. Che, se da un alto eredita da una traduzione illustre e consolidata un patrimonio indifferente , dall'altro, su quella ricchezza letteraria incrudelisce sin quasi a dissiparla, cancellandola con furore.
La vicenda del romanzo è presto detta: in un paesino della Sicilia approda con la corriera Attilio Forra, il supplente del titolo, che accetta l'incarico di insegnare l'inglese in una scuola, dopo avere abbandonato l'impiego presso l'Anagrafe.
Un piccolo paese siciliano, la corriera , un insegnante di provincia: sembrano quasi gli ingredienti di un racconto di Leonardo Sciascia, ma la ricetta di Fiore è di tutt'altra specie.
Perché pur prendendo l' abbrivio da un fondale realistico, disegnando una topografia subito riconoscibile, con il circolo di conversazione, la piazza, le tipiche abitazioni di una borghesia ridicola e meschina, gli uffici squallidi, e poi il rituale delle passeggiate serali, col sottofondo ostile delle proteste dei contadini che lottano per le terre e dell'attacco dei separatisti che minacciano il paesello, Fiore mano a mano sottrae mobilio e suppellettili, cancella le strade, abbatte gli edifici: rade al suolo, in poche parole, le quinte neorealistiche.
Per concentrasi esclusivamente sul personaggio di Forra, il quale è perennemente in attesa di un evento metafisico, di un determinante epilogo. Cosa che però non accade: l'agognata palingenesi, ceh si affaccia dalle impennate argomentative del supplente del suo luterano filosofare (in compagnia di sant'Agostino, san Bonaventura e san Tommaso), viene perennemente disattesa.
Forra, misteriosamente attratto in un primo tempo e poi definitivamente sconcertato dalla meschinità di quelli che lo circondano, si inabissa pian piano nei meandri della sua coscienza.
Dinanzi allo scacco definitivo, al fallimento come condanna metafisica, il supplente d'inglese depone le armi, suonando la ritirata in direzione del labirinto della psiche.
Di conseguenza, le pagine del romanzo cominciano a popolarsi di voci che tormentano, di squallide e surreali visioni: la narrazione di fatti e incontri cede il passo alla pagine di diario, nella seconda parte.
Una sorta di lucido censimento della follia, un registro delle presenze di personaggi imperiosi e sadici, dediti alla fornicazione, alla blasfemia, alla tortura.
Qui, l'urlo di un animo atterrito si unisce al lamento di una carne dolorante, e i corpi che copulano, si frustano, torturandosi sino all'inverosimile, diventano l'immagine di un mondo che ha smarrito l'indirizzo della divinità.
Da tutto ciò, deriva l'accelerazione claustrofobica che il romanzo registra alla fine: alla luce del sole, pallido e malato, si sostituisce quella artificiale e impietosa della sala operatoria. Prendendo pian piano forma una mostruosa coreografia, nella quale l'orgasmo si fa delirante metronomo di un'esistenza votata all'insuccesso.
Ma attenzione: il supplente non sarebbe quel grande romanzo che è, se la materia narrativa di Fiore non avesse trovato via libera lungo una carreggiata solitaria, e soprattutto divaricata rispetto alle mode di quegli anni.
Come giustamente mise in luce Giorgio Caprone, recensendo il romanzo su "La Nazione" del 24 ottobre 1964: "In tanto scrivere convulso e in tanto diluviare di novità tutte epidermiche, è senza dubbio di conforto un libro come questo, dove non è difficile trovare la conferma di come la vera e concreta novità non possa consistere tutta e soltanto nella scrittura, ma più propriamente in qualcosa che sta sotto di essa, e vale a dire nella sostanza: nello stile".
No stile spigoloso e sgraziato fatto di corto circuiti e di scosse elettriche.