Bagheria come un’infanzia (16) - di Biagio Napoli

Bagheria come un’infanzia (16) - di Biagio Napoli

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1-Via Roma. Loro vendevano uova. Due fratelli in una casa con un piccolo giardino in via Roma proprio accanto ai magazzini di villa Roccaforte, poi ristrutturati, e di fronte via Marconi.

In campagna allevavano galline, in paese vendevano le uova. Subito dopo il portone d’ingresso era cresciuto un banano; quando cominciava a far buio, se accendevano la lampadina sopra la porta del locale vendita, quella pianta, che stava proprio là di fonte, e le sue foglie, proiettavano strane ombre. Fu così che una donna, una volta che era andata a comprare delle uova, ed era l’ora adatta, tra quelle ombre ci vide pure quella della Madonna e gridò al miracolo. La voce si sparse immediatamente e tutte le sere per almeno una settimana i due fratelli dovettero tenere aperto fino a tardi. La processione quotidiana della gente che andava a inginocchiarsi e pregare davanti al banano continuò ad aumentare fino a quando non si vide più nessuna Madonna. I due fratelli infatti, una mattina, quell’albero lo tagliarono. Mi viene il dubbio però che questo fatto sia successo tardi, negli anni settanta forse; comunque importa poco, mettiamo che sia avvenuto quando ancora ero ragazzino.

2-La terrazza.
Fare le bottiglie era traficusu. Bisognava lavarlo il pomodoro, cuocciu pi cuocciu, livannucci i piricuddra viddi e mettendolo poi al sole perché non vi restasse una goccia d’acqua. Asciutto si mittieva rintra a quarara e s’addrumava a fujnaciella ra cucina; intanto si pulivano le bottiglie di vetro, al sole diventavano asciutte e calde. Il pomodoro vugghieva, si passava, rintra a quarara si ci mittieva a sassa, vugghieva. Dalla stessa pentola che gorgogliava, con mestolo e imbuto, si riempivano le bottiglie. Bisognava che fossero più colme possibile, ci si metteva quindi una foglia di basilico, un pizzico di sale. Si chiudevano con i tappi di sughero. Fuori erano pronte delle cassette di legno dove si sistemavano l’una a toccare l’altra. Sul fondo
delle cassette c’era una coperta vecchia di lana. Si lasciavano al sole. Al tramonto quella lana copriva le bottiglie in modo che il calore continuasse a conservarsi ancora per qualche tempo. Queste operazioni, in estate, venivano fatte più di una volta. Ogni volta cioè che mio padre aveva abbastanza pomodoro maturo da raccogliere. Quella salsa doveva servire infatti per tutto l’inverno. Le bottiglie si facevano in terrazza. Mia madre e mia sorella, in un angolo della stanzetta dove si apriva la scala che portava su, ci vollero una piccola cucina proprio pensando alle bottiglie della salsa. Ma ci vollero pure un piccolo forno a legna. Pensavano agli sfincioni, a Natale e per l’Epifania, e ai pupi con le uova a Pasqua. Così c’era bisogno di legna e mio padre, ogni volta che in campagna si potava, i limoni o gli ulivi, a casa ne faceva portare un carretto. A mazzo a mazzo, che l’uomo del carretto giù attaccava, la legna mio padre la tirava su a forza di braccia con la corda della carrucola. Passava una mattinata. In quella terrazza c’era anche una piccola tettoia ed era lì che la legna veniva sistemata. Se facevano gli sfincioni o i pupi con le uova, e io giravo là intorno, nulla mi dicevano; se invece erano occupate con la salsa, mia madre mi cacciava via, dicendomi d’andar fuori in strada, a giocare. Quella cosa, traficusa, era pure pericolosa. Abbruciarisi un ci vulieva nienti. “Diu nni scanza” diceva mia madre e faceva il segno della croce. In terrazza però mia madre ci faceva puru a liscìa. Quando le lenzuola erano asciutte, salivo sopra con lei pi scippalli. Ma io giocavo a nascondermi dietro di esse.

3-
E forse questo potrebb’essere il modo per scrivere questo libro: aprire la pagina e lasciare che le storie v’entrino strisciando da sole. Steinbeck, Vicolo Cannery, all’inizio.

4- Il gioco del prete.
Un certo Filippo Tilotta chiede la mia amicizia su fb. Tilotta. Uno con questo cognome è stato mio compagno alla scuola media. E anche amico se, ricordo, si passava anche qualche pomeriggio assieme a casa sua. Si chiamava Filippo? Confermo la richiesta. E’ lui. Su fb un post c’è con 5 fotografie più 5 da aprire.
E che apro. Una è un’emozione davvero forte. Nella 2° F, tutti rigorosamente maschietti, eravamo in 26. Ci siamo tutti in quella foto con , in mezzo, la professoressa di lettere. Laura Di Falco. Sarà morta? Li ho riconosciuti tutti quei miei compagni, anche quelli che, da decenni, non ho più visto. Alcuni avevano un soprannome. Devo riconoscere però che quei soprannomi non fossero un granchè. Uno gli dicevamo pane e mortadella perché sempre questo, ogni giorno, mangiava. Uno lo chiamavamo babbalucieddru, perché aveva la faccia piccola, ed era nicu, come una lumaca. Poi crebbe, d’età e di fisico. Uno aveva soprannome piscialuoru, ma era una cosa di famiglia, perché i nonni, forse, pesci avevano venduto, pescivendoli erano
stati, non che pisciassero sempre o che pisciassero oro. A Fedele, invece, che era il più alto e robusto di tutti, e forse aveva anche qualche anno in più, dicevamo u miricanu, perché la sua famiglia era stata in America o in Venezuela. Fedele abitava in una traversa di via Giuseppe Scordato, quella immediatamente sopra la strada del carcere, e un giorno in quella strada lo accompagnammo, come in una marcia trionfale.
A scuola l’insegnante di religione, ca era parrinu, il parroco della chiesa di S. Anna, a Santa Flavia, ci faceva fare un gioco. Stavamo tutti in piedi e, se diceva piripicchio, dovevamo alzare le braccia, dicendo Piripacchio bisognava abbassarle. Quelle due parole le diceva sempre più velocemente e quando ci aspettavamo che dicesse la prima, pronunziava invece la seconda e viceversa. Così alzavamo le braccia quando non dovevamo farlo o facevamo, invece, al contrario. E chi sbagliava veniva eliminato dal gioco. Potevamo essere eliminati tutti ma, se c’era qualcuno che non avesse sbagliato, era questo che vinceva. U miricanu vinse più volte e u parrinu, una volta, venne in classe con una fascia colorata. Fedele vinse al gioco per l’ennesima volta e u parrinu gli mise la fascia di campione. Con quella addosso ci fece tutta la strada fino a casa sua. La sua faccia sprizzava contentezza. Gli andammo dietro in molti.

5-U cuntu.
Di quel cunto mi piaceva soprattutto la parte di cui era protagonista l’asino, che veniva dopo quella della padellina che s’apparecchiava a comando, e prima dell’altra delle pecore trovate nel mare dopo essere stato gettato ra muntagna a pinninu dentro un sacco. Il vecchio era stato così furbo da riuscire a prendere in giro il capo dei ladri per tre volte liberandosene, addirittura, l’ultima volta. Quando successe la storia dell’asino, il capo dei ladri era andato a prelevarlo; avrebbe condotto il vecchio in un posto dove poteva ammazzarlo con tutta tranquillità. Gli disse allora: ”Datemi il tempo di governare il mio asino che è un animale speciale”. E quello: “Cos’ha di speciale?”. “Non tira carretto e non porta pesi”. “E che fa? “. “Caca picciuli. Messo su una tovaglia candida, se gli si dice: “Sciccareddru miu caca rinari”, di dietro si mette a buttare monete”. “Raccontatela ad altri”. “Non ci credete? La sola fatica è quella di raccoglierle le monete. Così uno ha le tasche sempre piene e può vivere senza dannarsi a lavorare”. Il ladro pensò che, possedendo un tale animale, poteva davvero mettersi a riposo e non fare più quel mestiere con tutti i rischi che esso comportava. Tuttavia disse: “Non mi convincete”. Il vecchio chiamò allora sua moglie e si fece portare una tovaglia pulita sulla quale spinse l’asino a cui disse in un orecchio: “Sciccareddru miu caca rinari”. E l’asino davvero da dietro buttò numerose monete che caddero sulla tovaglia con un forte scroscio. Ma non erano che le monete che poco prima il vecchio stesso vi aveva infilato ad una ad una e che ora l’asino, semplicemente, restituiva. Non era certo, come nelle fiabe, un asino magico. “Per questa volta vi lascio salva la vita” gli disse il capo dei ladri portandosi via l’asino. Giunse a casa, si fece portare dalla moglie una tovaglia bianca, vi spinse sopra l’asino e gli disse, in un orecchio, le parole che lo avrebbero dovuto spingere a buttare monete da dietro. Ma non caddero precisamente denari e il ladro, scornato, si prese pure i rimproveri della moglie che si trovò quella tovaglia lorda e maleodorante. Questa cosa me la raccontava mia madre; ero io a chiederle di raccontarmela quando, nicu nicu ancora, doveva darmi da mangiare.
Cuntami u cuntu ru zu Ticchiu, le dicevo.

Biagio Napoli
Marzo 2017.