I pubblicitari, meglio di tanti altri, sanno bene che la fortuna di un prodotto non si baserà quasi mai sulle sue oggettive qualità, ma su come verrà percepito, attraverso la comunicazione, dal target di riferimento.
Arte che si traduce nel saper fornire un’immagine di sé affatto speculare a ciò che la mafia, in effetti, è; arte del cucirsi addosso un’aura mitica di mondo alternativo dove ci sono sì poche regole, ma che funzionano alla perfezione e implacabilmente.
La mafia è sistema condiviso: un sistema rispetto al quale è difficile marcare estraneità e distanza; un sistema nel quale, parafrasando Francesco Flora, la servitù è sempre volontaria, anche quando passiva.
Si può discutere, certo, su quanto l’antimafia fatta di libri, assemblee, marce silenziose, fiaccolate, ma anche leggi della Repubblica, abbia influito su una più estesa e chiara percezione del fenomeno, sulla sua intrinseca e devastante carica di violenza e di negazione di qualsiasi valore e positività democratiche.
E se ne può discutere perché è lecito discutere, in un regime democratico, di tutto.
Per apprezzare nella giusta misura questa ‘chiacchiera a volte zeppa di astratti furori', basterebbe pensare che non sempre è stato possibile, nella nostra breve storia repubblicana, poter portare a tema di discussione pubblica certi argomenti. Il fatto dagli anni ’80 in poi il discorso a proposito della mafia sia quasi diventato un genere letterario/storiografico, ha come tutte le medaglie, due facce.
Il volumetto di Augusto Cavadi, (La mafia spiegata ai turisti, Di Girolamo editore, Trapani, € 5.90), presentato ieri sera a Palazzo Aragona-Cutò (organizzazione della serata a cura della giornalista M.Mancini), è certamente il lato positivo della medaglia.
Un volume agile, pensato come una FAQ e come tale capace di rispondere immediatamente alle domande fondamentali sul fenomeno in oggetto. Che sicuramente rende abbastanza agevole, al non nativo, la comprensione della complessità del fenomeno mafia, lavorando sul disvelamento dei tanti luoghi comuni che stentano a uscire dal circolo della comunicazione. A leggerlo fino in fondo, però, è difficile credere che il libro di Cavadi sia solo destinato ai turisti ignari ed ingenui: perché ci è invece sembrato un memento, puntualissimo nella sua sintesi, per gli indigeni che con la mafia sono nati e cresciuti. E questo perché Cavadi riesce in una operazione di solito difficilissima: semplificare, senza perdere capacità informativa, un argomento complesso. E dinanzi alla chiarezza esemplificatoria, per gli indigeni, non ci sono scuse che tengano.
L’argomentazione di Cavadi, facendo piazza pulita di una serie di luoghi comuni che incrostano la nostra percezione del fenomeno, mette gli indigeni, cioè i siciliani – ma, ovvio, anche i meridionali e gli italiani tutti - con le spalle al muro, nella condizione, cioè, di chi non si può rifugiare impunemente nel facile fatalismo del “siamo fatti così”. Perché è proprio questo ciò che ci impedisce di cogliere la relazione tra cause ed effetti: che fà scomparire le responsabilità individuali non solo dinanzi a Storia, Politica, Società, ma anche verso le persone in carne e ossa che con noi fanno comunità, società, nazione.
Gaetano Salvemini, tra le tante altre cose, ci ha insegnato a non cullarci su frasi come “Gli italiani son fatti così” per giustificare l’ingiustificabile. Dove “tutti son fatti così”, laddove tutti sono ugualmente colpevoli, nessuno risulterà mai veramente colpevole.
La mafia, diceva Sciascia, è un’organizzazione che si frappone in maniera parassitaria tra le istituzioni dello Stato e i cittadini, usurpando l’uso della forza e della violenza a chi di dovere. Ma la mafia è fatta di uomini e donne in carne e ossa: se indulgiamo, quando proviamo a spiegarla a noi stessi prima che ad altri, verso categorie come quella di colpa collettiva, la mafia sfuggirà verso la metafisica, verso l’ancestrale. E ci ritroveremo, così, cornuti e mazziati.
Il “siamo fatti così”, l’ineluttabilità antropologica, l’assoluzionismo facile – da Mani Pulite a Moggiopoli – il volemose bene infingardo sono fatti apposta per radere al suolo le differenze, per rendere innocuo ogni sussulto di responsabilità individuale e collettiva.
Capire la mafia è capire un grumo di reciproche connivenze che fa sistema.Siamo sicuri che gli stranieri non abbiano una cognizione esatta del fenomeno? Qualche mese fa il quotidiano The Indipendent titolava: La mafia è la più grande impresa commerciale italiana. Poi snocciolava un po’ di cifre: un giro di 91 miliardi di euro l’anno, il 6.1% del Pil etc.
Tornando al discorso iniziale, diciamo che è legittimo che un’impresa con un simile fatturato tenti di vendere meglio che può la propria immagine, di ammantarla di un’aura mitica e patriarcale, di grondare positività e conservazione dei valori veri, delle invarianti dello spirito umano, quasi fosse la matrice della famigliola felice del mulino bianco, e non uno dei più abietti opifici del familismo amorale. Il questo il libello di Cavadi è puntuale ed efficace: dissolve con pochi tratti, ogni tentativo di mitizzare il passato storico di un sistema criminale.
Non c’è una mafia antica, buona, patriarcale ma capace di offrire sicurezza e protezione al popolo, di contro a una mafia secolarizzata, trascinata nel baratro di un’assenza generalizzata di valori da una società che cambia i suoi schemi di riferimento troppo in fretta. Anche se questa, paradossalmente, è la storia,la linea interpretativa, che le fiction mediatiche degli ultimi anni hanno sposato.
Le mafie sono una certezza anche per lo Show-business, e questo, non so calcolare in che maniera, va ad implementare di sicuro le stime fatte dall’Indipendent. Sono lontani gli anni del Commissario Cattani e del cattivo da opera dei Pupi Tano Cariddi. Il tono mitico/didascalico di fiction come Il capo dei capi tracciano uno scarto, nella comunicazione, impensabile soltanto fino a pochi anni or sono. La mafia ha fatto un salto di qualità culturale: leggere Saviano per capire meglio (o ripassarsi mentalmente le scene dell’arresto di Lo Piccolo figlio, con quell’attenzione studiata ed efficacissima per le telecamere). L’antimafia arranca, fosse anche soltanto per la difficoltà di mettere in atto la legislazione vigente (a cominciare dalla Legge Rognoni-La torre).
Così ben venga Cavadi a raccontarci, a ricordarci, come sia pericoloso il ritornare a prospettive storiche mitizzanti e mistificanti sul fenomeno mafia, e di quanto siano pericolose, in tal senso, le Soap-Opera dei pupi e base di pizzini e cicoria. Di come concorrano a far diventare il sistema mafie un fenomeno anche turistico, un segmento del ‘lavoro culturale’ di questo paese.
Il nostro paese – Bagheria, Palermo, La Sicilia, il Meridione tutto,l’Italia – merita qualcosa di meglio. I milioni di italiani che non sono, non saranno mai, disposti a mandare giù pillole indorate, meritano di meglio. Meritano di sfuggire a un destino revisionato e sceneggiato a monte gli italiani del futuro prossimo: quelli che rischiano di trovarsi, sui libri di Storia, Lucky Luciano equiparato a De Gasperi o che saranno convinti che il ventennio - fintanto che si limitava a mandare al confino e ad assassinare comunisti, sindacalisti e anime belle - non fosse poi quel mostro che si dice sia stato.
Cancellazione dei diritti fondamentali del cittadino, istupidimento di massa, cialtroneria eletta a sistema le chiavi d’oro della felicità. I regimi si manifestano anche con le parole, non solo con i fatti. La mafia vive e prospera anche per come riesce a raccontarsi, a far mito condiviso di sé. Forse è essa, prima di ogni altra cosa, l’incarnazione di quel regime soft che sembra impossibile da mettere in crisi.