L’arte del ritorno è una delle più difficili da apprendere e da praticare. Ma è un’arte conosciuta come pochi altri dal nostro concittadino Tom Di Salvo che, ormai da mezzo secolo, spezza la sua routine di emigrante nel sogno americano
La forza e l’ostinazione che ci tiene avvinti a certi luoghi ha in sé qualcosa che sfida le logiche della razionalità più fredda, ma che ci svela, al contempo, cosa è, e come funzioni, la mente degli uomini. Bastino le parole di J.L.Borges: “Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato”.
Questa volta Tom torna con una mostra – da sabato 30 agosto, ore 19.00, Palazzo Aragona Cutò, e fino al 5 settembre – che ci permetterà di vedere parte delle sua produzione americana degli ultimi dieci anni, comprese alcune della opere esposte a Cuzco, in Perù, per una personale tributatagli dalla città andina nell’autunno del 2006.
Una esposizione, invece, quella di Palazzo Cutò, significativamente titolata Dopo 13 anni…e per la prima volta, in quanto, da un lato, segna il ritorno espositivo di Di Salvo nella sua Bagheria 13 anni dopo l’ultima mostra, con un percorso figurativo dal titolo Trascendental realism; dall’altro vede il debutto italiano della pittrice peruviana Leonarda Ayarza Romero che esporrà le tele del suo ciclo Danza sacra de los Incas.
Avremo ancora una volta modo di vedere come, per l’artista bagherese, la pratica artistica sia anche una continua riflessione sull’arte e la sua storia; e sulle ideologie, talvolta deteriori e risibili, dalle quali l’arte – come tutto ciò che è frutto della mano e dello spirito dell’uomo – si lascia, pagando pegno al Tempo Storico, fagocitare.
Una riflessione all’insegna dell’ironia, lente demistificante e plurale, capace di far emergere contraddizioni e ricchezze di una singola parola, di una sola frase, come di un solo tratto visivo, di un’unica immagine – proprio come il linguaggio di Joyce sotto il cui nume la pittura di Di Salvo insistentemente si pone. Per questo la fonte della citazione di Di Salvo non è mai il passato storico dell’immagine, ma il suo valore di scambio attuale, la sua presenza, in quanto discorso che non ha mai smesso di enunciarsi, nel nostro immaginario collettivo.
Basta guardare a Intifada, dove la verve citazionista di Di Salvo – pur rinunciando alla consueta griglia di rimandi testuali – sembra contraddire, e invece lo amplifica, il suo consueto modus operandi. Il rimando originario all’opera di E.Munch, centrifugato nell’universo pop, è utile a far da simbolo non a un astratto furore, o a una non meglio specificata angoscia esistenziale, a uno spleen da posa salottiera, ma ai concreti drammi della storia, al turbinoso flusso di eventi, con il loro corsi e ricorsi, fondati sul solito massacro dei più deboli e dei marginali, per i quali ogni commento di sottofondo risulterebbe ridondante e fatuo.
Nulla più della bandiera del becero, ma forse inevitabile, nazionalismo che ottunde l’urlo dell’Intifada, nulla più di quel silenzio coatto che parla più di qualsiasi orazione, ci dà la misura esatta dell’arte di Di Salvo: un percorso di sommessa, ma decisa, talvolta spietata, ironia della ragione offerta – con parole dense come colori primari, e colori convincenti come discorsi ‘ben temperati’ – agli occhi e alle orecchie di un mondo sempre meno disposto a riconoscere, e comprendere, le ragioni dell’Altro.