L'Omnibus Celeste giunge alla sua seconda fermata: I complici di Provenzano di Lirio Abbate e Peter Gomez.
Si è solitamente d’accordo sul fatto che la lettura – o, più in generale, la fruizione,orale o per immagini - dei racconti di fiction ci sia utile, utilissima, a comprendere meglio il mondo in cui viviamo, le cui dinamiche spesso risultano oscure al limite della comprensibilità, o quanto meno opache; che ci sia utile a capire meglio come funziona la mente dei nostri simili, e che perciò ci sia di notevole aiuto nel metterci in relazione nel giusto modo con gli altri.
Può anche capitare, però, che un tale effetto lo sortisca un libro che è tutto tranne che un racconto di fiction. Un libro, anzi, la cui forza motrice è tutta nello sguardo che sa piantare nella realtà, cioè nei fatti accaduti e più o meno noti, per darcene conto in maniera nuova, originale, illuminante. Il risultato di tale operazione – saper dividere il flusso della realtà in fatti, i fatti ‘giusti’, e ordinarli in maniera narrativamente efficace – può risultare spiazzante e illuminante più di qualsiasi racconto fantasy.
È quello che succede leggendo "I complici di Provenzano" di Lirio Abbate e Peter Gomez. Abbate e Gomez, tra i migliori giornalisti d’inchiesta italiani, conducono, a partire da fatti accertati da anni e anni di indagini, una narrazione degli ultimi venti anni circa di vita siciliana e, va da sé, italiana, che lascia il lettore allibito per eccesso di chiarezza e causalità.
Per certi versi si potrebbe dire che Abbate e Gomez non abbiano fatto altro che dare ordine a ciò che, in gran parte, era già dentro il senso comune e l’immaginario collettivo: che non abbiano fatto, cioè, che mettere per iscritto una diffusa (e condivisa?) percezione della realtà, dei rapporti di forza che la condizionano, dei valori che la ( e ci) plasmano. Obiezione facile e, inevitabilmente, dal fiato corto.
Saper mettere in ordine fatti e personaggi su uno sfondo plausibile a partire da una realtà densa e magmatica come quella dei rapporti tra criminalità e Istituzioni, mafia e politica, è operazione non facile, per la quale occorre un pre-requisito fondamentale.
Che la scrittura prenda le mosse da quella che Sciascia, sulla scorta di Pirandello, definiva la ‘Corda Civile’: una scrittura non di denuncia – le denunce fanno fatte nei luoghi a ciò preposti - ma di testimonianza e di racconto. Soprattutto di racconto: perché la verità delle narrazioni non ha bisogno delle risultanze processuali per essere letta e condivisa.
Lo sapeva bene Pasolini quando, il 14 novembre 1974, in un famoso corsivo sul Corriere della Sera , - quello che dopo una serie di ‘Io so…’, si chiudeva con uno sconsolato ‘Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.’ – dichiarava la propria smisurata fiducia nel poter fare racconto di quelle verità che rimarranno sempre ufficiose perché nessun Tribunale le incoronerà mai.
Pasolini sapeva bene che per portare a compimento il ‘progetto di romanzo’ sulla società italiana e sui suoi misteri più indicibili, benché sotto gli occhi di tutti, avrebbe necessariamente dovuto mettere insieme ‘pezzi disorganizzati e frammentari’: eppure non disperava, consapevole, come era che “la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile”.
Era troppo ottimista Pasolini? Forse. Però, a trenta anni di distanza, questo ottimismo ha fatto scuola: il suo testimone è stato ripreso da scrittori come Abbate, Carlotto, Saviano, Pascale e molti altri che – pur con stili e percentuali di fiction, assai diversi – stanno scrivendo a più mani, anche a rischio della vita, il romanzo di questo enorme paese mancato che è l’Italia.
A scanso di equivoci è bene precisare che, nel libro di Abbate e Gomez, è quasi nulla la percentuale di fiction (tranne brevi incisi in cui si immagina lo stato emotivo di alcuni dei personaggi oggetto del racconto) e altissima, invece, quella dei fatti accertati dalle indagini della magistratura e dalle intercettazioni ambientali delle forze dell’ordine.
Eppure questo racconto quasi cronachistico, che riporta con assoluta fedeltà documentaria la voce dei personaggi che lo animano (voci reali: le intercettazioni telefoniche e ambientali) ha sul lettore un effetto straniante, quasi annichilente, paragonabile a quello dei migliori racconti di science fiction quando ci proiettano dentro incubi che hanno tutto l’aspetto, sotto la facciata ingannevole dell’alterità assoluta, della normale realtà quotidiana. Ciò che sei abituato a vedere, non salta più all’occhio per eccesso di abitudine: anche se si tratta di un mostro.
Quello che impagabilmente ha fatto Abbate è descrivere un mostro, un incubo che è sotto gli occhi di tutti. E lo ha fatto con tale forza visionaria, con tale capacità di impatto emotivo che si è quasi, da lettori, portati a non crederci, a dirsi ‘no, non è possibile che le cose siano arrivate a tal punto’, ma per eccesso di evidenza, di trasparenza, di ovvietà.
Il fatto è che noi cittadini bagheresi, dinanzi a un libro come "I complici di Provenzano" ci troviamo nella condizione non piacevole di essere un po’ ‘più lettori’ di tutti gli altri. L’incubo realissimo che vi è raccontato ha infatti gran parte nella storia e nel presente della nostra città. Spiace dirlo, ma è così.
Anche per questo, ma non solo per questo, riteniamo che sia utile discuterne con l’autore. Perché è un libro che ci restituisce tutta la densità della nostra vita quotidiana, portando allo scoperto i fiumi carsici di illegalità e criminalità che scorrono silenziosamente sotto i nostri piedi. E lo fa come lo farebbe la migliore letteratura: fornendoci chiavi e strumenti per capirci e per capire.
Un buon racconto, parlandoci di luoghi lontani e posti sconosciuti, di epoche diverse e lontane dalla nostra, ci mette in condizioni di capire il nostro ‘qui e ora’: pensate un po’ se tutto questo, un racconto, è in grado di farlo parlandoci senza mediazioni del nostro ‘qui e ora’…
Appuntamento a giovedì 24 aprile alle ore 18.00 presso il teatro Branciforti di Bagheria.
Interverranno: Lirio Abbate, il sostituto procuratore Michele Prestipino, il sindaco di Bagheria Biagio Sciortino, Pippo Cipriani e Padre Mariano Stabile.