L’istituzione fondante della società degli anni Cinquanta era la famiglia estesa di tipo patriarcale e la donna risultava relegata ad una condizione di subordinazione e di obbedienza.
Negli anni Cinquanta il settimanale Famiglia Cristiana offriva articoli-precetti sull’educazione delle bambine: “Insegnare loro a donarsi, a donare le piccole cose per i poveri, per i malati, per i sofferenti. La bambina non deve fare centro della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi affetti se stessa, la sua vanità, il suo egoismo, i suoi riccioli, i suoi vestiti, ma deve imparare a donarsi per il bene, per la felicità degli altri. Una donna non è nessuno, la sua esistenza dipende dai maschi: il padre che la protegge, il marito che la mantiene, il figlio che ha generato”.
Due famose canzoni in particolare ben rappresentano il clima culturale di quegli anni: Tutte le mamme e Il pericolo numero uno.
Entrambi i brani, infatti, incarnano proprio le due antitetiche immagini in cui la donna era definita, come disse Federico Fellini “La madre, la Madonna, l’angelo da un lato, e la prostituta, il demonio, il peccato dall’altro”.
Tutte le mamme, vincitrice al Festival di Sanremo del 1954, interpretata da Gino Latilla e Giorgio Consolini, raccontava così le donne:
“Son tutte belle le mamme del mondo / quando un bambino si stringono al cuor / son le bellezze di un bene profondo / fatto di sogni, rinunce ed amor […] sembra l’immagine di una madonna”.
È di qualche anno dopo, del 1957, Il pericolo numero uno:
“La donna affascinante ti colpisce al primo istante / la donna che ti piace ti fa perdere la pace […] Il pericolo numero uno? La donna!”
Quella di allora era un Italia non pienamente pervasa dalla modernizzazione economica, nella quale canzoni come quelle citate hanno rappresentato una sorta di contrappunto sonoro.
Ed è sempre in quel periodo che alcune leggi sulla parità dei sessi si imbatterono in eloquenti e vigorose opposizioni: nel 1956, le donne furono ammesse per la prima volta nelle Corti di Assise, ma a patto che non ne costituissero la maggioranza. Molti giudici si dichiararono contrari a tale decisione, in quanto consideravano le donne moralmente deboli : “Quanto alle donne giudici togati - raccontava uno dei giudici ad un giornalista del quotidiano Il Giorno - per carità: sono troppo facili a cedere al sentimento. Magari si innamorerebbero dell’imputato” (Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., p.27).
In questa lenta e difficoltosa evoluzione sociale, il 1958 rappresentò un anno cruciale. Venne infatti approvato il disegno di legge della socialista Lina Merlin: le case di tolleranza, amministrate dallo Stato e risalenti all’epoca napoleonica, furono smantellate. Crollò così il monumento all’atavica supremazia maschile.
Gli anni Cinquanta, per certi versi, sembrano preistoria. Ma oggi, a distanza di mezzo secolo, possiamo parlare realmente di completa e compiuta emancipazione femminile? Le ultime statistiche offrono un quadro sconfortante sulla situazione delle donne italiane: lavora solo il 46,3%. Più di sette milioni in età lavorativa sono in sostanza fuori non solo dal mercato ma anche dalle decisioni, dalla produttività, dal contesto sociale. In definitiva ai margini.
Eppure in ambito politico, prima di ogni elezione, si rispolvera il concetto - slogan di quote rosa e pari opportunità - e, a prescindere dai risultati e da quanto effettivamente realizzato, possiamo star certi che chi di dovere al momento opportuno (per chi?) romperà il silenzio e tornerà ad affrontare l’argomento sui media in prossimità di una nuova tornata elettorale.
Se poi andiamo ad analizzare l’ambito locale, possiamo facilmente dedurre che nella nostra amata Bagheria la realtà si presenta ancora più critica, specie in politica. Sembrerebbe infatti consolidata una strana regola: le poche donne che conquistano visibilità e vengono elette spesso si trasformano in meteore. Così, alcune, dopo un iniziale successo, non riescono a mantenere la fiducia degli elettori (forse a causa dell’inesperienza, o per aver osato troppo con vorticosi salti partitici), altre decidono di lasciar perdere (per intraprendere nuove strade o per paura di una più che annunciata disfatta), per non parlare di coloro che, a torto o a ragione, vengono messe da parte direttamente da quello stesso entourage che, almeno ufficialmente, le aveva sostenute fino alla fatidica riunione di capitolazione politica.
Perché avviene tutto questo? Un felice e durevole connubio fra donne e politica locale è davvero infattibile? È solo colpa di un sistema maschilista? O in certi casi siamo noi donne che, una volta al potere, veniamo colte da improvvisa amnesia dimenticando in cosa e in che modo potremmo fare la differenza, finendo poi per conformarci all’andazzo?
A prescindere dal genere di appartenenza, è innegabile, dati politici alla mano, che mettere la propria volontà e il proprio entusiasmo a servizio di una realtà complessa e frastagliata come quella bagherese spesso equivalga a tuffarsi in un oceano caotico dove sai già di dover fare attenzione a squali sempre fin troppo voraci. Ma nessuno si cura di ricordarti, anche se sei una splendida sirena, di non abbassare la guardia con pessimi nuotatori, come i pesci palla.
In foto, Giusy La Piana