In mezzo a quanti avevano dato l’assalto al corteo, c’erano anche Giovan Battista e Giuseppe Scordato, il primo con un ruolo attivo nell’assassinio degli Scavotto e nell’incendio degli studi notarili. Essi saranno rinchiusi nel Castelloamare, la prigione borbonica palermitana. Giovan Battista, quando uscirà dal carcere, vivrà “del provento di ogni sorta di reato, incluso l’omicidio”, (1) meritandosi per questo una ricca taglia di ricercato. Sarà per riscuotere le 150 onze di essa che, il 19 dicembre del 1843, egli verrà assassi-nato “in territorio di Mezzojuso”, (2) dopo che era stato braccato inutilmente in tutta la Sicilia.
Giuseppe Scordato in prigione vi stette un anno; rimesso in libertà per la grazia concessa da Ferdinando II di Borbone, tornerà a fare il suo antico mestiere, il guardiano di campi. Lo ritroviamo (e sarà la suaprima metamorfosi) in veste di eroe e di patriota durante la rivoluzione del ’48. Farà strada Giuseppe Scordato perché, per i suoi servigi, “nel febbraio del ’48, era già stato elevato al rango del “don” ed a marzo Bagheria l’onorava conferendogli la presidenza del comitato dei festeggiamenti del Santo Patrono, carica fin lì riservata alle figure di spicco del ceto dei “galantuomini”. (3) Sempre a marzo il governo rivoluzionario lo nominerà comandante di battaglione (con relativo stipendio), mentre Baldassarre, un altro fratello, sarà tenente nello squadrone delle guardie campestri (dove Giuseppe sistemerà quattro parenti della moglie) e il padre, Antonino, comanderà una delle ricostituite compagnie d’armi (la polizia locale), abolite nel 1837 da Ferdinando II.
Due suoi discendenti, i nipoti Salvatore e Nino Scordato, gli dedicheranno alcune pagine della Guida Bagheria Solunto del 1911 in cui magnificheranno le sue gesta definendolo con l’appellativo di “Briareo”. (4) Da allora, e fino agli studi di Nicola Previteri, egli sarà il protagonista indiscusso dell’epopea bagherese del ’48, eroe senza macchia e senza paura. Ma già nel 1976 Denis Mac Smith, nella sua Storia della Sicilia (Laterza), faceva di Giuseppe Scordato un ritratto così poco lusinghiero da suscitare l’indignazione di Oreste Girgenti che con lo storico pole- mizzerà in un modo certo degno di miglior causa. (5) L’anno successivo Giuseppe Scordato (e sarà la sua seconda metamorfosi), beneficiando ancora una volta della grazia di Ferdinando II, cambierà infatti casacca mettendosi al servizio della restaurazione borbonica ed entrando a far parte della compagnia d’armi comandata dal padre. Da eroe della rivoluzione a sbirro della restaurazione con un futuro immediato, come vedremo, ancora più squallido. Scrive Nicola Previteri: “…Nella sua mente la Rivoluzione impallidiva fino a perderne senso. Forse egli non ebbe mai a capirlo, incolto com’era…Giuseppe Scordato nella Rivoluzione aveva visto la buona occasione per regolare a modo suo, cioè con la violenza, ed in franchigia, vecchi conti con la giustizia borbonica, colpevole a suo vedere, della messa al bando di suo fratello Giovan Battista e, perché no, del suo anno al Castelloamare per i fatti di sangue al tempo del colera”. ( 6 )
1849
E’ l’anno della restaurazione dopo sedici mesi di governo rivoluzionario. E’ quello, scrive Giuseppe Speciale, “di un delitto politico consumato a Bagheria nella notte del 3 luglio, vittime due uomini “eccellenti” dell’appena restaurato regime borbonico: Don Gesualdo Pittalà, sindaco di Bagheria, notaio, “percettore”, cioè esattore delle imposte, ricchissimo proprietario; e don Giuseppe Ciraulo, principe di Linguaglossa, alto magistrato venuto da Palermo per una missione che aveva insieme carattere politico e giudiziario…La riunione nello studio del sindaco, alla quale partecipavano un alto magistrato, un cancelliere il Lo Monaco, e il capo della polizia di Bagheria, cioè lo Scordato, aveva certamente come scopo quello di esaminare la posizione di coloro che si erano compromessi con la rivoluzione. Ma al di là di questo un’altra grave questione agitava il paese: il recupero delle somme che molti avevano consegnato ad esponenti locali del governo rivoluzionario a titolo di caparra per l’acquisto di un lotto di terra all’Accia in base alla legge “rivoluzionaria” che ordinava la distribuzione delle terre appartenenti alla chiesa. Si può comprendere , perciò, la disperazione di coloro che con la restaurazione del regime borbonico e la conseguente abrogazione delle leggi della Rivoluzione vedevano svanire la speranza di ottenere un pezzo della buona terra dell’Accia. E’ in questo clima che avviene l’attentato: Gesualdo Pittalà non era soltanto il massimo esponente locale del regime borbonico; era anche, assieme al fratello, don Modesto, il gabelloto dell’Accia!” (7)
Scrive invece Nicola Previteri: “Don Gesualdo non era ricchissimo. Quel che egli in quel momento possedeva era vincolato per i prestiti contratti per sfamare i “miserabili”…Va anche sfatato che egli fosse stato percettore delle imposte, essendo tale attività incompatibile con la carica di sindaco, né risulta che gestisse una gabella in società con il fratello don Modesto in quel dell’Accia”. (8) E scrive anche: “E venne il 2 luglio. Dopo circa un’ora e mezza dal tramonto, don Gesualdo, come al solito, era intento al suo lavoro di notaio assistito dal “patrocinatore don Giuseppe Ciraulo” che gli sedeva di fronte, ed in presenza di altre nove persone. Assisteva anche don Giovanni Lo Monaco, il sostituto cancelliere del circondario…Con le spalle ad una delle due pareti laterali si trovavano in attesa di concludere i loro affari i fratelli Messina, quattro in tutto, mentre di fronte ad essi nella stessa posizione sedevano il capitano d’armi don Antonino Scordato, suo figlio Giuseppe ed il genero Domenico Butera…Accanto ad essi si trovava un personaggio illustre, nientemeno che il principe di Linguaglossa, don Silvio Bonanno Chiaramonte, un nobile legato a Bagheria da numerosi interessi, “maggiordomo” di Sua Maestà, è certo che egli si trovasse lì al solo scopo di sanzionare uno dei suoi tanti affari personali, per realizzare quattrini. (9)
Come si vede ci sono differenze notevoli nelle due ricostruzioni. A cominciare dalla data: era la sera del 2 o quella del 3 luglio? Una cosa è sicura e cioè che c’era caldo e la porta dello studio del notaio era aperta permettendo ai fucili, da fuori, di colpire. Del resto anche il principe di Cattolica morì nel caldo di un altro luglio e in luglio v’era stata la processione del colera. Coincidenze? E in quello studio v’era una riunione politico-giudiziaria o si stavano trattando solo degli affari? La presenza di quattro privati cittadini ( i fratelli Messina ) deporrebbe per questa seconda ipotesi e il principe di Linguaglossa, che Speciale pare confonda con i Ciraulo, era di casa negli studi notarili di Bagheria. (10) Gesualdo Pittalà, sindaco fin dal 1837 e senza soluzione di continuità anche durante il periodo rivoluzionario, la sera faceva studio e il re bomba, per i reati commessi nel ’48, aveva concesso, come sappiamo, l’amnistia.
Era o no il sindaco ricchissimo? (11) Era esattore delle tasse o si trovava in una condizione di incompa-tibilità? Era o no gabelloto dell’Accia con il fratello Modesto? Giuseppe Scordato non era ancora capitano della compagnia d’armi; lo sarebbe diventato il successivo 7 agosto prendendo il posto del padre ormai settantenne e forse malato. Era lì con quest’ultimo e con il cognato, armati, allo scopo di proteggere il sindaco che, evidentemente, e vedremo perché, doveva aver paura. Sia Speciale ( da sinistra ) che Previteri ( da destra ) hanno studiato le carte. Eppure quante differenze!
Che un altro debba riprendere in mano quelle carte? Tuttavia, nonostante le differenze, alla fine i conti potrebbero comunque tornare. Cos’era avvenuto alcune settimane prima del delitto? I borboni stavano per completare con le armi la riconquista della Sicilia; l’esercito era acquartierato a Termini quando don Gesualdo, guidando il 30 aprile una delegazione di “galantuomini”, vi si recherà per professare la sua fede borbonica e dichiarare Bagheria pronta ad accogliere la truppa. Il paese verrà infatti occupato cinque giorni dopo senza alcun combattimento. Passa un mese preciso e durante la notte del 30 maggio, nei poderi di quattro diversi proprietari, si troveranno alberi e viti tagliate: tutti avevano fatto parte di quella delegazione ch’era andata a Termini per quell’atto di sottomissione. Un chiaro avvertimento per tutti i componenti di quella delegazione sindaco compreso! I responsabili erano perciò antiborbonici? Erano, in definitiva, dei patrioti? Bagheria, da qualche tempo, era un inferno.
La precarietà del governo rivoluzionario (tre crisi in sedici mesi col re che intende riprendersi l’isola) aveva aggravato i problemi della sicurezza pubblica. “…A Bagheria…in giro si vedevano tristi figuri armati di tutto punto sordi ad ogni richiamo e pronti a far uso della violenza…ben presto Bagheria vide allungarsi su di essa l’ombra dell’omicidio come fatto quotidiano”. (12) E’ una vera e propria condizione di emer- genza che spingerà Giuseppe Mancuso, giudice, a scrivere al Ministro dell’Interno e Sicurezza Pubblica della rivoluzione.
Leggiamo: “Puochi malintenzionati han turbato la tranquillità pubblica in questo Comune commettendo vari reati di omicidi, minacce, lettere tendenti allo scrocco ed altro, e quel che è più non lasciano di far pratiche secrete per formarsi un partito di cattivi…io son di avviso di proporre a V.E. di far subito installare in questo Comune una forza militare…”. (13)
Anche Gesualdo Pittalà, agli inizi della restaurazione borbonica, pochissimi giorni dopo quel gravissimo fatto del taglio delle viti, porrà mano alla penna per scrivere alle autorità: “Il modo materiale poi per come fu commesso detto reato, fa supporre essere l’effetto di una setta di malfattori…ciò porta maggiore spavento e dà luogo ai giusti timori, molto più che il paese attualmente trovasi senza alcuna forza né materiale né morale”. (14) Il “partito dei cattivi” del Mancuso e la “setta” del Pittalà non sono che l’embrione di quella che, dopo l’unità d’Italia, comincerà più chiaramente a definirsi come associazione mafiosa e che ora, in mancanza di apparati poliziesco-giudiziari efficaci, ha cominciato a prosperare. Il delitto si consuma nel clima di quegli impor-tanti cambiamenti politico-sociali caratterizzati certo dalla revoca delle leggi promulgate dalla rivoluzione ma, soprattutto, dalla attesa e caldeggiata repressione militare da parte di quel potere di cui don Gesualdo Pittalà aveva auspicato il ritorno.
Tra i provvedimenti adottati dai Borboni allo scopo di ristabilire l’ordine pubblico vi fu, pena la morte per i trasgressori, la consegna delle armi . “Per questo reato a Bagheria pagò con la vita Nicolò Bagnasco, marito di Anna Maria Provenzano e padre di Santo, un bimbo di un anno. Fu una tragedia di esclusiva marca bagherese: bagherese la vittima, bagheresi i carnefici e bagherese il luogo della esecuzione”. (15)
Il 29 novembre 1849, preso in consegna al Castelloamare da Giuseppe Scordato, da questi Nicolò Bagnasco venne condotto a Bagheria e, alle undici precise di quel giorno, fucilato nel sagrato della chiesa delle Anime Sante. L’ordine di far fuoco ad un plotone di otto compagni d’armi venne impartito da Giuseppe Scordato alla sua terza metamorfosi. Era diventato il boia di Salvatore Maniscalco capo della polizia borbonica.
NOTE
1-Nicola Previteri, Verso l’Unità, Gli ultimi sindaci borbonici di Bagheria, Assessorato ai Beni Culturali
del Comune di Bagheria, 2001, p. 20.
2-Ibidem.
3-Nicola Previteri, Don Gesualdo Pittalà sindaco e galantuomo borbonico, Assessorato ai Beni Culturali
del Comune di Bagheria, 1997, pp.188-189.
4-Bagheria Solunto Guida Illustrata, Casa di Cultura, 1911, pp. 15-20.
5-Oreste Girgenti, Bagheria origini e sue evoluzioni, Edizioni Soleus, 1985, pp. 197-198.
6-Nicola Previteri, Verso l’Unità, op. cit., pp. 35-36.
7-Giuseppe Speciale, La misteriosa uccisione del sindaco Pittalà, Il Paese, Ottobre-Novembre, 1982.
8-Nicola Previteri, Don Gesualdo…op. cit., pp. 206-207.
9-Ivi, pp. 212-213.
10-Ivi, p. 59: “L’11 dicembre 1832 lo studio del notaro Giuseppe Mancuso…era insolitamente animato.
Decine e decine di contadini di Bagheria, Santa Flavia, Solanto e Casteldaccia si accingevano a sottoscrivere
un atto enfiteutico in base al quale una vistosa fetta del feudo dell’Accia appartenente al principe di
Linguaglossa, don Silvio Bonanno Chiaramonte, sarebbe passata nelle loro mani in perenne godimento.
Qualche mese dopo, e precisamente il 23 marzo dell’anno successivo, presso lo stesso notaro la scena
si ripeteva: con un secondo atto il principe cedeva a censo i resti del feudo. Complessivamente a bene-
ficiarne furono in 150 circa, i cui nomi coi rispettivi canoni e quantità di terra, purtroppo, sono ignoti,
essendo andato a fuoco nel ’37 l’archivio del Mancuso”.
11-Il 31 luglio del 1848 don Gesualdo Pittalà aveva stipulato un mutuo di 235 onze con gli interessi del sette
per cento offrendo in garanzia le sue proprietà immobiliari cioè delle case in piazza Madrice, un fondo in
contrada Giancaldo, ed uno in territorio di Solanto. Con quei soldi aveva fatto spalancare il granaio del
principe di Valdina distribuendo il frumento ai poveri e scongiurando, almeno per il momento,
gravi disordini. Le proprietà del sindaco erano perciò gravate da forti debiti.
12-Nicola Previteri, Don Gesualdo…, op. cit. ,pp.168-169.
13-Ivi, pp.181-182.
14-Ivi, p. 203.
15-Nicola Previteri, Verso l’Unità…, op. cit., p. 33.
Giugno 2012 Biagio Napoli
nelle immagini dall'alto in basso: Stazione ferroviaria, torre ovest Palazzo Butera e veduta di Palazzo Butera