Cultura

 

E’ molto probabile che chiunque, attraverso il comportamento di ogni giorno, tenda a perseguire e raggiungere i propri obiettivi e i propri scopi. Ad esempio tutti vorremo essere pienamente felici, soddisfatti della vita e del lavoro che facciamo. Vorremo godere di ottima salute e vivere pieni di una energia carica di gioia. In altre parole vorremo essere felici e soprattutto percepire un profondo senso di benessere.

Ma per benessere è da intendersi esclusivamente una condizione di assenza di malattia o fondamentalmente è un concetto che può comprendere qualcos’altro? Ognuno di noi insegue il benessere.

Persone prive di malattie si sentono tristi o infelici, e affermano di vivere una condizione di malessere. Altre convivono e lottano ogni giorno con malattie molto gravi e affrontano condizioni di esistenza critiche e lo fanno anche con una forza incredibile, magari tra un sorriso regalato a un proprio caro e un pianto celato.

Tristezza, felicità, gioia sono allora emozioni che riguardano il “sentirsi bene” ma che comprendono uno stato che va al di la della semplice assenza di malattia. Il benessere è la
conseguenza di una situazione che giudichiamo positivamente e che concerne sfera fisica e biologica e quindi ciò che chiamiamo malattia, sfera psicologica che riguarda come ci sentiamo dentro e le emozioni che proviamo rispetto a certe cose, e infine sfera sociale.

La grave crisi economica di cui oggi tutti parlano e le difficoltà che molte persone hanno a far quadrare i conti influiscono certamente sullo stato di benessere. Un ricco avrà garantita la felicità? Affatto.
Eppure il disagio economico è un aspetto che può influire negativamente e che unito ad altri fattori di rischio può farci scivolare verso le sponde del malessere.
Le nostre emozioni, il benessere nel senso più completo del termine è frutto allora di una positiva percezione che investe vari aspetti della nostra vita.
Nel caso di gravi calamità naturali, come ad esempio i terremoti o in altre situazioni impreviste ho potuto constatare che non tutte le persone reagiscono allo stesso modo.

C’è chi sprofonda nella depressione, c’è chi si rimbocca le mani e trova la forza per aiutare gli altri.

Questo significa che la realtà, a parità di condizioni, può essere letta da più punti di vista, nel senso che ognuno di noi mette del suo e che questo può pesare e portarci in una direzione o nell’altra.

Le risorse personali sono uno scudo che ci permette di far fronte ai problemi, ai traumi ecc.

Queste risorse sono in parte un dono naturale, in parte costruite a partire dalle esperienze dell’infanzia e in parte possono essere arricchite attraverso opportuni training e percorsi terapeutici. Aiutare il paziente depresso a costruire un nuovo futuro è un esempio.

Innumerevoli fattori contribuiscono al nostro benessere ma siamo sempre noi che dobbiamo essere in grado di leggere le pagine della nostra quotidianità con un linguaggio che ci faccia stare bene e ci faccia felici della nostra vita.

Dott. Francesco Greco
http://www.consulenzapsicologicaonline.blogspot.it
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Il Dott. Francesco Greco, Psicologo e Psicoterapeuta, è specialista in Psicoterapia Cognitivo
Comportamentale. Svolge attività clinica per i disturbi d'ansia, depressione, disturbi dello sviluppo,
consulenza di coppia e familiare a Bagheria (Pa).
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La presentazione dell’ultima fatica letteraria di Ferdinando Scianna, “Ti mangio con gli occhi”, è stata una imperdibile occasione per incontrare il noto fotografo bagherese, autore di un libro che tra ricordi, sapori e viaggi, si rivela essenzialmente autobiografico.


All’ora del tè dello scorso 17 gennaio, all’interno della nota pasticceria “don Gino” ed in collaborazione con la libreria “Interno95”, ha avuto luogo una inconsueta iniziativa letteraria nata dall’esigenza di consentire la presentazione del recente libro di Ferdinando Scianna anche ai lettori di Bagheria.

Gli intervenuti hanno così avuto modo di assistere ad un originale “recital” nel corso del quale il loquace scrittore ha intrattenuto gli astanti con gli aneddoti e le motivazioni per le quali ha deciso di lavorare al volume, stimolato all’occorrenza dalle questioni sollevate dal professor Maurizio Padovano o del professore Natale Tedesco, quasi un “ospite d’onore”.

Fotografia e scrittura rappresentano, in fondo, due mezzi espressivi abbastanza simili tra loro.

Nel momento in cui affronta la stesura di un testo, l’autore adotta le medesime strategie compositive di cui si avvale quando scatta una fotografia, “esponendo” con nitidezza davanti al lettore la propria personale visione dei fatti.

Non si tratta di un libro di fotografia, benché contenga numerose immagini realizzate dall’illustre maestro, ma neanche di un libro di ricette. Si tratta di narrativa. Letteratura “tout-court”. Partendo dai luoghi in cui è cresciuto, a dai cibi dei quali si è nutrito durante l’infanzia, l’autore spazia per l’universo gastronomico di tutto il mondo, associando ad ogni sapore il racconto di un luogo, di un incontro di un episodio della sua vita.

Il cibo ha svolto un ruolo importante nella nostra educazione e costituisce una parte integrante della nostra estrazione culturale e territoriale. Per questa ragione, specie chi si trova lontano dal paese natale, non lascia passare troppo tempo senza preparare un piatto della propria tradizione, per rinnovare la natura più intima dell’essere, perché non scada, come un passaporto, anche la loro identità.

Questa ammirevole associazione tra luoghi e sapori, tra profumi e ricordi, non so bene se a proposito, mi ha rammentato la madeleine di Marcel Proust (in effetti alla “recherche” si può fare riferimento per ogni esperienza).

Al termine dell’incontro con i suoi compaesani, Scianna (Fernando, come dice lo chiamassero a Bagheria) non si è sottratto a qualche domanda del pubblico, composto da una folla di appassionati di cucina e di fotografia, per una volta, indistintamente, tutti quanti lettori dello stesso libro.

Andrea Di Napoli

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Ferdinando Scianna “Ti mangio con gli occhi” Contrasto Editore (2013)

Pagine 236 Prezzo di copertina € 22.00 

L'articolo è tratto da L'inchiesta Sicilia ( edizione on line)

Tornatore lo mette nel suo film quando il giovane Peppino Torrenuova inciampa una sera su un cadavere caldo caldo, appena sparato, e va dai carabinieri e questi cominciano a babbiare. Quel morto, ucciso a scupittati alle spalle, era mio nonno, Saverio Di Cristina si chiamava, Sciavieriu.

Accussì me nonna arristò vedova e cu na picciriddra ri tri annuzzi. Comu avia a fari? Meno male che c’era la suocera e questa aveva quattro figlie femmine, erano quattro cognate che le tenevano la bambina, iddra sinni java a cammmariera a Palermo. Se l’era presa una marchesa che io neppure ricordo come si  chiamasse.

Mia nonna non si risposò più e tenne il lutto finchè non maritò la figlia, finchè non maritò mia madre, passarono venticinque anni, mia madre si sposò e la nonna, finalmente, u nivuru su livò per non portarle il malaugurio.

Mio nonno lo ammazzarono una sera di febbraio del ’44; aveva trentatrè anni, picciuttieddru, io non lo so se fosse un mafioso, ma era figlioccio del brigante Turiddru Galioto e quattro anni prima lo avevano mandato a Favignana, cunfinatu.

Puru avieva na para ri mal’amici, sacciu comu i chiamavanu, me lo diceva mia nonna quando parlava del  marito, unu era Siruoru u bruciaregni, l’altro lo chiamavano Ninu u lignutuojtu.

Che bella gente che doveva essere.

Se ne andavano infatti a rubare limoni e ortaggi, eranu saccunara, nelle campagne facevano quello che volevano, erano padroni, u campestru i piscava, gli dicevano che erano amici di mio nonno, che erano amici ru figghiuozzu ru brianti, u campestru i lassava iri.

altMio nonno però non ci andava a rubare, lavorava in campagna con il padre che possedeva dei terreni, ne vendette due quando era confinato, vendette i vigneti di contrada Lorenzo e di Rannino, per farlo liberare, tornare dall’isola, ai tempi della potatura mio nonno lo chiamavano a giornata per bruciare la ramaglia, lavorava e a rubare non ci andava, solo faceva l’intrallazzo ma, a quei tempi, chi non s’aiutava in quel modo?

Fu per questo che l’ammazzarono; un giorno, andando a Muntata, col treno, non ebbe una lite con uno che chiamavano Vicè u peri tisi? Lo conciò per le feste ca me nonnu era alto e forte, per questo u brianti lo aveva cresimato, e anche per il modo in cui sapeva usare il coltello e, forse, la lupara.

Quello gli disse che gliela avrebbe fatto pagare e mio nonno, dopo averlo gonfiato di botte che glielo dovettero togliere dalle mani, così gli rispose: “Se mi vieni di dietro magari può essere come dici tu, ma se vieni davanti non sarai tu e nemmeno la tua banda a farmela pagare!”

U peri tisi non se la tenne, o lo ammazzò personalmente ,naturalmente andandogli di dietro, o lo fece ammazzare, una sera, in via Buttitta, con lui c’era un altro, non è come la racconta Tornatore; e tutta la notte a terra li lasciarono, sulu i cummigghiaru cu na manta picchì subitu cuminciò a chioviri, tutta la notte piovve addosso a quei due poveretti, a matina eranu assuppati r’acqua . E quella sera non ne ammazzarono un terzo?

Questo però a Puntavugghi, forse faceva parte dello stesso gruppo di mio nonno, macari eranu chiddri rui, u bruciaregni ricu, e u lignutuojtu. Però quello che uccisero insieme a mio nonno si chiamava Orobello.

Ma, forse, questo Orobello non faceva parte della banda di mio nonno; o forse sì e allora o non sapeva di condurlo alla morte oppure, invece, lo tradì. Fu lui infatti che lo fece uscire di casa quella sera. Che scusa gli prese?

Mio nonno sedeva presso il fuoco, era febbraio e c’era molto freddo, alla fiamma si riscaldava. E i cani a lato. Ne aveva due che gli erano attaccati come lui era attaccato a loro. Così, alcune volte, brutte erano le sciarre con la nonna se pasta non ne cuoceva a sufficienza per dar da mangiare ai cani.

Pigghiava a pignata e fuori la buttava. “Tutti riuni stasira s’un mancianu puru i cani “. A picciriddra però la faceva mangiare.

Quei cani erano due bastardi, uno lo aveva chiamato Massaro perché era bravo a prendere la caccia  portargliela, l’altra Messalina. Aveva forse visto qualche film sull’antica Roma? A chista ci mancava a paruola.
Me nonnu perciò si quariava chi cani o latu. C’era sò matri che era venuta per la bambina, c’era a picci- riddra, c’era me nonna.
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Tuppuliano. Ci và sò matri.

Sciavieriu rintra è?” 

Sciavieriu a tia vuonnu”

Cu è?”

Mio nonno si alzò e andò alla porta. Fu allora che Messalina, come se presagisse qualcosa, cominciò a ringhiare.
Mio nonno spostò la tenda e guardò fuori.

Aspietta ca nesciu”
“Ma chi avi sta cana. Stasira unn’avi risiettu” disse mia nonna perché Messalina faceva avanti e indietro.

Mio nonno uscì e i cani appresso.
Anche quel tale Orobello che era venuto a chiamarlo, come ho già detto, venne ucciso e certo per eliminare un possibile testimone.

Dalla via Sindaco Scordato, unni stava ri casa me nonnu, andarono in via Buttitta ca è a strata ri ncapu; u tiempu r’arrivaricci e si sentirono i colpi della lupara che furono così tanti ca passiru truona, perché già qualche tuono s’era sentito, il temporale stava per arrivare.
Massaro si coricò accanto al padrone morto , Messalina ci livò a coppula fatta ri sangu e pajtiu pa casa.
Cominciò a graffiare la porta abbaiando.
Cosa a me figghiu ci ficiru” rissi a matri ri me nonnu. Iddra cu me nonna e ca picciriddra appriessu si pajtieru dietro Messalina.

I quattro suoru ri me nonnu, Pitrina, Sasa, Rosa, e Provvidenza, vennero dopo ca cu patri a casa avievanu arristatu, iddri stavanu in via Carollo, a strata o sutta, ntisiru ddru viva Maria ch’era scoppiato nel quartiere e uscirono e dopo venne il padre ca jera nno megghiu suonnu, quel cristiano si coricava presto, perché presto si alzava al mattino, alle cinque, usciva l’asino, mpaiava u carriettu, aspettava a so figghiu Sciavieriu per andare a lavorare in campagna.

A matri ri Sciavieriu appena u vitti ntierra si ci iccò ri supra. E diceva: “Assassini. Traritura. Di giorno il pane e di notte la roba vi deve mancare. Si devono aprire i cieli”.

Me nonna pigghiò a picciriddra e se la portò da una sorella perché non vedesse il padre morto.

Il padre di Saverio, che lo aveva sempre rimproverato per le cattive amicizie, diceva: “Lo sapevo io, lo sapevo, consiglio da me non ne prendevi vedi ora comu ti finiu?”

Tutta la notte così. Che strazio! Fuoru chiddri ru vicinanzu ca pigghiaru na manta e cummigghiaru i muojti.

Il beccamorto con le casse venne al mattino alle nove. E ddrocu cuminciò Massaru a lassarisi iri a muzzicuna.

Il beccamorto, che conosceva mio nonno, disse: “Cani degni del padrone. Un lu vuonnu tuccatu a Sciavieriu”.

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Biagio Napoli

 

P.S. ci scusiamo con  l'autore e con i lettori per un refuso: avevamo scritto in un primo momento'Il delitto di via Aiello', piuttosto che 'Il delitto di via Buttitta' che è il titolo corretto.

bnews
 

L’ansia è sicuramente un emozione molto comune. A tutti può capitare di sentirsi ansiosi.

L’ansia di per se non ha una valenza negativa a tutti i costi, nel senso che a volte una certa dose può perfino esserci d’aiuto per affrontare meglio le nostre sfide quotidiane.

Tuttavia se la risposta ansiosa diventa eccessiva, tale da limitare la nostra vita e impoverire la qualità delle nostre relazioni, allora essa può rappresentare un problema e comportare talvolta un vero e proprio disturbo.

Vi sono molte tipologie di disturbi d’ansia, che sono tutte caratterizzate da una marcata ed eccessiva risposta di paura rispetto a qualche evento, oggetto o situazione specifica.

C’è chi ad esempio ha paura dell’aereo o dell’ascensore, c’è chi ha difficoltà a guidare un auto in autostrada o a trovarsi in un grande centro commerciale. Alle volte l’ansia può diventare talmente intensa da spingere le persone a non uscire più di casa e ad avere molteplici paure.

Ancora, si può provare ansia quando dobbiamo incontrare qualcuno o quando dobbiamo svolgere un certo compito che comporta l’essere osservati o il credere di essere giudicati.

In altre situazioni ove l’ansia diventa “cattiva” le persone possono avere talmente paura di ammalarsi o di perdere la propria salute da essere prigioniere delle proprie preoccupazioni e della continua ricerca di rassicurazioni.

Quando l’ansia diventa eccessiva si genera un circolo vizioso fatto di paure, pensieri catastrofici, sintomi somatici e psicologici. In questi casi si può sperimentare con facilità un
attacco di panico.

Nell’attacco di panico sintomi quali tachicardia, sudorazione, vampate di calore, palpitazioni, paura di morire, di impazzire, senso di vuoto e di irrealtà si mescolano e generano un evento molto intenso.

Quando allora l’ansia valica quel limite che ci porta a uno stato di malessere?

L’ansia diventa eccessiva quando crediamo che certe situazioni o cose possano rappresentare gravi e incombenti pericoli.
Se l’ansia è così elevata da farci sentire in continuo e costante pericolo potremo vivere uno stato d’animo di tensione tale da essere paragonato a un sistema di allarme ipersensibile.

Questo meccanismo genera un circolo vizioso proprio perché ansia genera paura dell’ansia e poi ulteriore ansia, si diventa poco lucidi e si tende a catastrofizzare, cioè a pensare in termini catastrofici.

Per distruggere questo circolo vizioso e diminuire il senso di disagio che è collegato a un disturbo d’ansia basta, il più delle volte, provare a cambiare il modo di vedere le cose,
cambiando cioè mentalità e immaginando spiegazioni plausibili e alternative.

Se una certa cosa mi procura ansia eccessiva dovrò allora cambiare il significato che gli attribuisco. Potrò così convincermi che sono più pericolosi certi miei pensieri e convinzioni che le cose che mi spaventano e che mi fanno tanta paura.
 

Dott. Francesco Greco
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Il Dott. Francesco Greco, Psicologo e Psicoterapeuta, è specialista in Psicoterapia Cognitivo
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