La triste parabola della Maxel di Mimmo Toia

La triste parabola della Maxel di Mimmo Toia

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Tutti conoscevano negli anni '80-90 la Maxel di Mimmo Toia: una piccola azienda artigiana a conduzione quasi familiare che in un meno di un decennio arrivò a fare fatturati in miliardi delle vecchie lire. La storia di questa azienda viene considerata oggi, da tutti i media, quasi paradigmatica del rapporto tra mafia e imprese in Sicilia.

 

Oltre a nuovi impianti elettrici e manutenzioni pubbliche non solo a Bagheria ma in mezza Sicilia, la Maxel lavorava anche nella realizzazione dell'impiantistica nel settore residenziale privato ai tempi in cui a Bagheria sorgevano migliaia di abitazioni e condomini come funghi.

E la Maxel di Mimmo Toia la faceva da padrona, al punto che era più di un sospetto che dietro (o accanto) al titolare si muovessero sponsor di spessore.

Ma da amico dei boss che presumibilmente era, Mimmo Toia ad un certo punto se li è ritrovati in azienda autonominatisi soci o qualcosa del genere; e su questo equivoco-capestro è iniziata la parabola discendente; con l'avvento di Mani pulite seguì per l'azienda un periodo di sostanziale stasi negli appalti pubblici in Sicilia e la Maxel fu costretta a spostarsi a Milano, nelle Puglie, in Sardegna per poter continuare a lavorare.

Mimmo Toia era uno cui il lavoro piaceva e che il suo lavoro lo sapeva fare, ma il grasso che colava degli anni '80 e '90 non ci fu più, le sorti dell'azienda cominciarono a vacillare e di fronte alle continue, incessanti ed esose pretese dei boss l'azienda finì per essere stritolata. “Mi consideravano praticamente come la loro cassa privata.”, ha raccontato Domenico Toia, quando nel 2013 ha iniziato la sua collaborazione.

Dovette vendere immobili e casa per sostenere l'azienda e accondiscendere alla pretese del capofamiglia di turno. Ma quel 'Cozzo dei ciauli' dove aveva riversato gran parte dei guadagni realizzati e che rappresentava la sua polizza per la vecchiaia non volle mollarlo, anche se, come raccontano le cronache giudiziarie recenti, gli amici fecero di tutto per sfilarglielo di tasca.

Lo ricordiamo ancora un paio d'anni fa assieme ai figli e già malato, cercare di fare l'impossibile per rilanciare quel centro di agriturismo che in una prima fase anche come ristorante era andato abbastanza bene: non ci riuscì.

Le banche avevano chiuso i rubinetti e la sua esposizione non gli consentiva di potere avere ulteriori crediti. Un anno fa morì, lasciando ai figli una eredità pesante e difficile.

La sua parabola è emblematica.

I carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo ne hanno ricostruito i passaggi, inseriti nell'ordinanza di custodia cautelare che ha raggiunto ventuno persone. Toia si era ribellato al racket nel 2013, quando i mafiosi di Bagheria lo avevano ormai spremuto. Non c'era più succo nelle sue aziende. Eppure era stato una potenza economica. A cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta le commesse, pubbliche e private, arrivavano a pioggia. La mafia che, per stessa ammissione dell'imprenditore, lo aveva agevolato gli presentò il conto.

Ed ecco come Riccardo Lo Verso su livesicilia ricostruisce attraverso le carte giudiziarie la sua parabola.

In un ventennio Toia era passato dai fatturati miliardari allo stato di quasi indigenza. Colpa delle continue richieste di denaro.

I boss si fecero vivi per la prima volta ha raccontato “verso la fine degli anni 80-inizi anni '90, ancor prima che venisse pubblicato il bando relativo alla manutenzione dell'impianto di illuminazione pubblica comunale di Bagheria”. Poi, qualcuno dell'ufficio tecnico gli fece sapere che "gli amici avrebbero avuto il piacere dell'aggiudicazione dell'appalto alla mia ditta”.

E aggiudicazione fu. Subito dopo cominciarono le richieste di assunzioni di parenti e amici dei mafiosi. E soprattutto di soldi. Per la precisione “3 milioni di lire al mese per i parenti di Pino Scaduto, che nel frattempo era finito in cella”, per un totale di 360 milioni.

Poi, toccò a Nicolò Eicaliptus, altro pezzo grosso della mafia bagherese, avanzare una strana richiesta di pizzo: “... mi obbligò quindi ad immettere liquidità nel Bagheria calcio, ripianando i debiti ed investendo danaro da lui gestito, per un totale di circa 400 milioni di vecchie lire”. Tale situazione terminò con la mia uscita dalla gestione e poco dopo fu arrestato Eucaliptus. Quegli anni furono caratterizzati, come detto, da continue richieste economiche da parte dei mafiosi di Bagheria, che mi consideravano praticamente come la loro cassa privata...".“

Quando anche Eucaliptus finì in cella, ecco farsi sotto Gineo Mineo che lo volle incontrare mentre si trovava confinato nel Trapanese: "Mi chiedeva la somma di l 00 milioni di lire che dovevano da lui essere investiti nell'apertura di una attività imprenditoriale a Trapani”.

Toia riuscì ad ottenere uno sconto fino “a 50 milioni di lire, glieli consegnai in 5 rate da 10 milioni di lire in contanti, che gli feci recapitare una volta attraverso il nipote Francesco Raspanti, una volta attraverso il cognato Antonino Raspanti ed altre tre volte gliela consegnai di persona, andando a trovare Mineo a Trapani”.

Poi, il potere a Bagheria passo ad Onofrio Morreale, genero di Eucaliptus: “Questi, di continuo, mi richiedeva danaro per il pagamento delle spese legali dei carcerati e per il sostentamento delle loro famiglie”. Toia era ormai finito in un vicolo cieco. La stagione dei grandi appalti era ormai un ricordo. Così come il benessere economico di un tempo. Erano rimasti i debiti e le pressioni dei mafiosi. Per tirare avanti Toia vendette a una coppia di russi la sua bella villa a Ficarazzi per 900 mila euro. I mafiosi lo attendevano al varco. Sergio Flamia lo invitò a seguirlo nella sua abitazione, dove lo attendevano Pino Scaduto, nel frattempo tornato libero, e Giovanni Trapani. Scaduto pretendeva “i suoi soldi per i lavori che mi aveva fatto ottenere”. Non gli bastarono alcune somme in contanti. Toia fu costretto a cedergli un magazzino a Ficarazzi. Valeva 300 mila euro.