Un centro contadino quale era Bagheria alla metà del’Ottocento aveva mille motivi per partecipare in forma massiccia al movimento antiborbonico e non è un caso che uno dei focolai più attivi della insurrezione che precedette nella primavera del 1860 lo sbarco dei Mille, si sia acceso qui.
Come non è un caso che il capo del movimento sia per l’appunto un curatolo: Andrea Cuffaro che dalla torre Ferrante (foto in basso, n.d.r.) che sorgeva al centro del girato a lui affidato attacca con altri animosi il presidio borbonico.
Nello scontro muore il figlio di Cuffaro. Questi viene fatto prigioniero e fucilato dopo pochi giorni assieme ad altre dodici rivoltosi nei pressi del Castello a mare a Palermo ( proprio dove si trova l’attuale Piazza XIII Vittime n.d.r.) .
Ma la sanguinosa repressione non riesce a troncare l’insurrezione patriottica che da Bagheria a San Lorenzo e a Carini rimarrà in vita sino all’arrivo dei Mille sui monti della Conca d’Oro.
Tre campagnoli di Bagheria cadono nella battaglia per la conquista di Palermo: Matteo Di Fiore ai Settecannoli, Pietro Inserillo al Ponte Ammiraglio, Carlo Puleo a Ballarò.
Essi non hanno combattuto per un astratto ideale di indipendenza nazionale ma per sollevarsi dalla secolare miseria: ciò che in concreto voleva dire conquista di un pezzo di terra da coltivare.
Garibaldi aveva subito intuito, sbarcando a Marsala, che questo era il vero problema della Sicilia e anche se la sua concreta azione di governo non sfuggirà alla morsa di insanabili contraddizioni ( spedizione di Nino Bixio contro i contadini di Bronte) resta tuttavia il fatto che il suo decreto per la concessione delle terre della Chiesa, è uno dei primi atti di governo emanati a Salemi, cioè subito dopo lo sbarco.
Del resto anche i Borboni l’avevano capito e avevano cercato di avviarlo a soluzione approntando una serie di provvedimenti legislativi che si possono considerare avanzatissimi sul piano formale ma che avevano un solo difetto: restavano completamente inapplicati.
A far le spese di questa riforma agraria, sia secondo i Borboni sia secondo Garibaldi, avrebbe dovuto essere in primo luogo la Chiesa che in Sicilia, forse più che altrove, aveva accumulato nel corso dei secoli un immenso patrimonio terriero.
Il solo vescovo di Mazara possedeva ancora nel 1860 ben diciassette feudi, quello di agrugento dieci, quello di Cefalù otto!
Con espressione felice questi beni erano detti della “manomorta”, ed in effetti essi producevano poco o nulla.
Il feudo dell’Accia, nell’entroterra di Bagheria, non faceva eccezione alla regola.
Queste terre, di proprietà della Congregazione dei monaci di Santa Cita, e che in mano ai contadini avrebbero di lì a pochi anni fatto arricchire centinaia di famiglie erano utilizzate soltanto per fare pascolare qualche sparuto gregge.
Continua…
tratto da "Peppino Speciale, Giornalista, politico, storico"
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