Quelli di Aspra
La sentii che diceva:
“A puojta sbattulia
e a funtana un curri cchiù,
a scala acchiana e scinni
e u parrinu ri Santa Nicuola
rici a missa cu culu ri fuora.”
Disse questa specie di filastrocca quando la sua parente, che fino ad allora era stata a parlare
con lei, se ne fu andata.
La guardai; disse che l’anno che stava per finire non era stato favorevole alla sua famiglia, che
niente era andato per il verso giusto.
Era questo il significato della filastrocca.
La parente dunque andò via; disse allora che era figlia di tale Turiddru u balatuni e lo disse di
proposito per risvegliare la mia curiosità sull’origine di quel soprannome; anche lei aveva
ddru ‘nciuriu. Tutta colpa di suo nonno che andava dicendo che la moglie incinta un figghiu
comu un balatuni gli doveva partorire, come una pietra da costruzione, una pietra d’Aspra.
Disse: “A quei tempi c’erano ancora le cave ad Aspra, i pirrieri; il nonno padrone di cave era,
sua moglie un figghiu comu un balatuni delle sue cave doveva dargli. Fici a razza di balatuna.
Ma ci sono altre razze ad Aspra. C’è a razza ri Caluorii.”
E raccontò che un calzolaio, un tal Calogero di cui notizia del cognome s’è persa, un figlio
diede ad una sua cugina; le diede un figlio ma non potè sposarla, perché già sposato era.
“Nino si chiamò quel figlio. Certo poi crebbe, come la madre aveva il cognome, e fece la
razza e questa il soprannome ereditò.”
In città andò a fare la serva Maria a Caluoria, moglie di Nino. Il primo giorno vide nel corridoio
un uomo in pigiama e cominciò a gridare spaventata.
“Ma è mio figlio quello” le disse la padrona.
E lei, che gli uomini li aveva sempre visti in mutande con i lacci, o nudi d’estate,
disse: “Mi deve scusare signora padrona, ma io mai ne avevo visto uomini di Palermo!”
Turiddru ri Bastianeddru
Diceva spesso:
“Un t’ammiscari, un ti ‘ntricari,
un fari bieni ca mali ti nni vieni.”
E vi aggiungeva:
“E a robba ca un’è tò carriatilla!”
Ma diceva soprattutto:
“Se muore il papa un altro ne fanno, ma Turiddru ri Bastianeddru unu sulu è e se muore…”
E gli piaceva il vino.
Lavorava nelle cave, gli piaceva il vino, quanto guadagnava alla taverna lo andava a spendere,
una settimana sì e una settimana sempre.
Con donna Mariannella, che gli era moglie, e aveva una lingua come una spada, era lite
continua a causa del vino. Turiddru, se aveva le tasche piene di soldi, prima spaccava piatti
e bicchieri, poi si recava al negozio e ricomprava ogni cosa.
E diceva:
“Lumi e timuri*
e maravigghia mai
ca a maravigghia
ci ‘ncappa la cavigghia!”
Un giorno andò a Palermo, alla Vucciria. Al ritorno disse che, se non aveva soldi, un’altra
volta non ci sarebbe più andato. C’era il ben di Dio; e, ogni cosa che vedeva la bocca apriva, per mordere e inghiottire.
“E se inghiottivi mosche?” gli dissero.
“Pure a questo rischio mi sono messo” rispose. “A gola mi ricieva ri sì, a sacchietta no! Se non
ho soldi, a Palermo non scendo più.”
*lume d’intelletto e timore di Dio.
di Biagio Napoli