Una notte però gli arrivarono in sogno il profumo lieve e delicato della zagara e la risata sfacciata di una dama intravista sotto il muro di cinta secoli prima e mai dimenticata. Al risveglio prese la sua decisione. Non si sarebbe consumato lì, con gli occhi a spegnersi sull’unica parte di mondo che il destino gli aveva assegnato.
Il mondo, si disse, doveva essere grande e ancora bello, lontano da lì.
Sapeva di sicuro che il mondo arrivava oltre l’Arco del Padreterno, presidiato dai Giganti, e dopo di esso cominciavano le terre incognite da cui venivano gli stranieri e al di là di esse c’era una distesa di acqua verde d’estate e grigia d’inverno, che circondava il mondo intero. Doveva essere ancora bellissimo, glielo dicevano l’azzurro del cielo, il canto degli uccelli all’alba e il rosso dei tramonti che a volte accarezzava persino il suo corpo deforme.
La bellezza doveva esserci ancora e lui, così brutto, non aveva vissuto che per quegli attimi in cui gli era passata accanto. Svegliatosi, pianse lacrime di polvere e pregò i Giganti del Padreterno perché mandassero un terremoto a farlo rotolare giù da quel muro o un uragano che lo portasse via, in volo sui giardini verdi e oro e fino alla fine del mondo che non era lontana, poco dopo la borgata dell’Aspra. E il miracolo accadde. Non fu un terremoto né un uragano a tirarlo giù da lì ma un giovane dalle mani sudate e dall’alito pesante.
Non seppe mai perché quell’uomo avesse scelto proprio lui, forse perché era il più brutto pensò, pazzo di gioia. Arrivò poco dopo la mezzanotte, quando i televisori tacevano e dalle finestre non arrivava più luce. Era solo e lavorò a lungo nel buio, sussultando e interrompendosi ad ogni rumore.
Lo spaventavano i bisbigli dei pupi che passavano parola lungo tutta la cinta, annunciando che stava succedendo qualcosa di incredibile, ma l’uomo scambiava i sussurri per voci umane e le sue mani tremavano e si facevano maldestre. Fu più volte sul punto di ferirsi con la lama tagliente che, alla fine, ebbe ragione della pietra. Lui non osava pensare, temeva di svegliarsi da un altro sogno ingannatore. Credette di morire quando, nella casa dirimpetto, si accesero le luci e l’uomo lasciò la presa e svanì nel buio. “E’ finita? Dov’è andato?” si chiese, disperato, ma subito dopo sentì di nuovo la lama grattare i suoi insulsi piedini e poi i piedini staccarsi dal muro e il suo corpo sollevarsi nel cielo senza luna, libero. Poi fu il buio.
Stava rinchiuso dentro qualcosa di ruvido, un sacco forse, come ne aveva visti spesso sulle spalle dei contadini o dei mercanti. L’uomo lo stava trasportando sulla schiena e procedeva lentamente. Granelli di polvere gli caddero giù dagli occhi, lacrime di gioia. Al sorgere del sole avrebbe visto il mondo. Il passo dell’uomo aumentò, sentì un rumore che conosceva bene, lo sportello di una macchina che si apriva. Si sentì cadere su qualcosa di morbido e la macchina si mise in moto.
Bianco. Tutto bianco e liscio. Non riusciva a vedere altro. Forse era morto e quello era il suo paradiso, o il suo inferno, solo una superficie infinita e sempre uguale di colore bianco. La stava osservando ormai da ore e aveva paura. Doveva essere la punizione per avere osato chiedere troppo. Ognuno doveva farsi bastare quello che era. Lui era nato pupo e pupo doveva restare ma non si era accontentato, aveva chiesto troppo, mosso dall’orgoglio, e i Giganti dell’ Arco del Padreterno lo avevano punito. Pianse e un po’ di polvere cadde giù sulle sue guance scavate. Poi sentì dei passi e le mani sudate e il fiato pesante del suo salvatore.
Si sentì prendere, sollevare, rimettere in piedi e si accorse che non era morto, era rimasto sdraiato sulla schiena a fissare il tetto di una stanza, e adesso la stanza gli appariva grande e colorata, piena di cose. Sperò che l’uomo lo guardasse e notasse il suo sorriso, che gli avrebbe detto quanto era felice e quanto lo amava per averlo liberato, ma quello non lo guardò con sufficiente attenzione. Raccolse delle cose da un tavolino, lo sollevò e lo caricò in macchina.
Era brutto, il mondo. Brutto senza rimedio. C’era rumore e strade piene di macchine peggio che attorno alla villa e case da tutte la parti, nessun giardino di limoni e aranci e fichi d’india. Era tutto così. Ma ciò che gli diede il colpo di grazia fu l’Arco del Padreterno.
Lo riconobbe dalle descrizioni che gliene avevano fatte i suoi compagni, quelli più fortunati che lo scorgevano in lontananza. Lo riconobbe nonostante le colonne ormai rosicchiate dal tempo, il caos tutt’attorno e i secoli di incuria che ne avevano inghiottito la maestà.
Dei due Giganti ne rimaneva uno solo e la sua faccia era davvero scomparsa, come raccontavano i suoi compagni nottetempo. Non aveva mai voluto crederci “Sono eterni e indistruttibili e possono esaudire le nostre preghiere” aveva sempre ripetuto lui, fiducioso. Adesso sapeva che neanche questo era più vero. L’uomo lo posò ai piedi del Gigante, sotto quello che era stato il magnifico Arco che portava a Palagonia chi giungeva dalla costa in splendide carrozze e abiti sontuosi.
Le sue mani sudavano di nuovo, doveva essersi spaventato. Forse lui, anche se pupo, contava ancora qualcosa e lo stavano cercando. Si erano accorti di lui finalmente, adesso che era mancato. Prima di andarsene, l’uomo gli regalò una strana, fuggevole carezza e lo guardò attento. Forse si era accorto del suo sorriso.
“Non lasciarmi qui” avrebbe voluto dirgli lui, e si sforzò di mettere nel sorriso di pietra tutto la sua disperazione, ma fu inutile. L’uomo si allontanò velocemente e il pupo restò lì sotto le rovine dell’Arco, nel frastuono delle macchine, a convincersi che la bellezza si era dissolta per sempre e che era ormai inutile cercarla. A tarda sera una signora in pantofole scese a buttare un sacchetto di spazzatura nel cassonetto di fronte all’Arco e lo notò. Il pupo la vide correre in casa ciabattando e capì che era finita. Vennero a prenderlo poco dopo, lo riavvolsero in un sacco e lo lasciarono chissà dove. Lui dormì finché non tornarono a prenderlo, stanco di pensare e senza più voglia di illudersi.
Lo riattaccarono al suo posto nel corso di una solenne cerimonia a cui presenziarono persone importanti. I suoi amici tacevano, forse offesi perché se ne era andato via così, senza neppure dire addio. Avrebbero parlato di notte, però, chiedendogli di tutto, e forse lui avrebbe regalato loro storie bellissime: “Ne inventerò tante” pensò “per riempire chissà quante notti.”
Ma quando sentì i suoi ridicoli piedi incollarsi di nuovo e per sempre al muro di cinta mentre gli uomini applaudivano felici, quando si ritrovò davanti all’insegna del panificio senza effe e alle ringhiere scrostate dei balconi, il suo cuore di pietra si arrese e ogni desiderio e ogni fantasia lo abbandonarono. Qualcuno gli scattò una foto che finì sul giornale locale. Sulla grottesca faccia di pietra, anche a guardare attentamente, non si sarebbe mai più potuto indovinare il suo lieve sorriso.
Germana Favognano