La mia festa della memoria - di Biagio Napoli

La mia festa della memoria - di Biagio Napoli

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E’ comu a casa ri ronna Rusiddra, mancu un piritu ponnu ittari.


“Ronna Rusiddra era una del vicinato; dalla mattina alla sera, casa per casa si infilava, per sparlare. Si ‘nni fuiu una ragazza della strada e la madre dentro se la mise. -Annicchia, Annicchia- ci rissi ronna Rusiddra a me matri. -Si ‘nni fuiu e misiru u linzolu, mancu un piritu ponnu ittari!-

Passò poco tempo e pure sua figlia se ne scappò col fidanzato e iddra sa ‘nfilò rintra e anche la sua casa era piccola; il lenzuolo, per dividere la stanza da letto e farne due, puru ronna Rusiddra lo dovette mettere. Mancu un piritu putievanu ittari ed ebbero sette figli!”


Ci va sdignannu u baccalaru o ‘zzu Turi Bellanti!

“Facieva u trainieri, girava i paesi, unni iava iava mangiava baccalaru agghiuotta, una volta che glielo preparò sua moglie, il tegame lo fece volare ‘nfina ‘nna chiazza ri Virduni; fu la nuora che disse il discorso dello sdegno e rimase per motto!”


Picciuli rici Lisa, ca r’amuri si ‘nni rispisa.

“Bagherese, venne stare ad Aspra, era un beddru spicchiu ri mennula amara; la sera i maschi le andavano a bussare, lei apriva, puru ca panza tanta, gravida d’andare a comprare!”


Rosa manciati i viscuotta ca sù megghiu ru pani.

“E c’era un’altra, ai tempi di mia madre, io picciriddra di dieci anni, che faceva il mestiere; aveva soprannome polpetta. Lo diceva alla figlia di mangiare i biscotti perché erano più buoni del pane. A quel tempo u pitittu s’arricugghieva ca pala e lei forte parlava con la figlia, per farsi sentire dai vicini, per far credere che bene se la passava, pi fari struriri all’avutri, a giustificazione di quello che faceva. A mia madre io dicevo:-Ma come? E’ vedova come te!-
E quella santa cristiana a rispondermi:-Stacci lontana figlia mia dalla sua casa perché traffico c’è”- Io non capivo. Solo dopo ho capito che polpetta si dava aiuto in quel modo.”


Turi ca accussì nesci? Picchì un’haiu misu a coppula?

“Il quartiere era sempre pieno delle zuffe che si verificavano a causa della condotta di quella donna e mio zio, Turi si chiamava, a dirci:-Un ci iti ‘nne sciarri, ca i purpietti i cani si manciaru.-
Ma era il primo ad affacciarsi per assistere alle liti e se si trovava in mutande, quei mutandoni con i lacci che si usavano una volta, così s’affacciava dopo essersi posto sul capo il berretto.


L’amu a fari? Ora ci facemu a prova comu a mastru Masi.

“Quando gliene veniva voglia, mastro Masi se la toglieva andando da polpetta. Era scarparo e sciancato e, prima di andarci, un bambino le mandava per chiedere se avesse un ago e del filo di cui fingeva d’aver bisogno. Faceva la prova il calzolaio: se lei in casa non aveva nessuno, gli mandava ago e filo.”


Chiuiti a porta ca arrieri aggira, comu o ‘zzu Turi.

“Lo zio Turi era il marito della zia Vanna. Andava e veniva dall’America, non stava dieci mesi e tornava, i soldi che guadagnava glieli dava a mangiare alle navi, sedici giorni per andare sedici per venire, andava e veniva sempre, non ci poteva stare lontano dalla moglie, la metteva incinta e se ne andava, le fece fare un sacco di figli. Quando morì, dopo le esequie, la zia Vanna disse di chiudere la porta o, anche da morto, sarebbe ritornato a farle fare altri figli.”


Vistiemulu, ca chi ‘mmarazzi ri fuora San Pietru un lu fa trasiri.

“Quando moriva qualcuno, si stava attorno al morto, del morto si parlava, si dicevano le qualità che possedeva: ah, era così…ah, ch’era buono! Andavamo a casa con gli occhi gonfi e rossi per il gran piangere. Si faceva così prima, Aspra è un paese piccolo, s’era quasi tutti parenti, tutti ci si conosceva. Ora, ad Aspra sarde e acciughe si sono mischiate, gente estranea è venuta da fuori e ci siamo imbastarditi, se uno muore può essere che non lo conosciamo, se prima qualcuno moriva ci si andava a piangere. Certe volte si rideva. Un c’è festa senza chiantu, un c’è morti ca un si riri. Quando morì mia madre per poco non ce la facevamo addosso per il gran ridere.
Vistiemulu, ca chi ‘mmarazzi ri fuora San Pietru un lu fa trasiri. Così disse mia cugina quando trovarono morto lo zio Giuseppe e questa fu la storia che ci fece ridere con mia madre morta in mezzo alla casa. Lo zio Giuseppe abitava da solo in faccia al mare; una mattina non lo videro uscire, andarono a bussare alla sua porta, nessuno rispondeva, la scassarono. Mia cugina voleva vestirlo ma era ormai troppo rigido e aveva gli avambracci piegati sulle braccia, da ogni lato lo
girassero pareva che facesse quel gestaccio.
-Ah, zio Giuseppe, queste cose a me non le deve fare, neppure da morto me le deve fare- diceva mia cugina.
-Avvolgiamolo in un lenzuolo se non si può vestire- le disse suo fratello Giovanni.
-Vestiamolo o San Pietro chi ‘mmarazzi ri fuora non lo fa entrare in paradiso-gli rispose.”


“Natali figghiu r’uoru cu su manciò u pani ru stipu?”

“Io un ni sacciu nienti, pà! Dumannaccillu a me soru Anna.”
“Anna figghia r’uoru cu su manciò u pani ru stipu?”
“Io un ni sacciu nienti, pà! Dumannaccillu a me frati Pippinu.”
“Pippinu figghiu r’uoru…”


Muccunieddru.

Aveva il muso storto e così pareva avesse un boccone che la guancia gli gonfiava. Era medico; con le donne profittava della professione. Gli tirarono una schioppettata al rettifilo.

Biagio Napoli: "La parte che ho in quello che precede è solo quella di avere scritto quanto, a suo tempo, mi veniva detto da una donna di Aspra che mi fu collaboratrice per un breve periodo della mia vita professionale e che ora, poverina, non c’è più. La mia festa della memoria era la sua quando i fatti quotidiani le davano immediatamente ricordi del luogo (persone, cose, parole ) in cui era cresciuta".