A fare un po’ i conti, anche sommariamente, non si tarda a rendersi conto di quanto il treno sia un topos obbligato della narrativa, e dell’immaginario collettivo, della modernità. Gli esempi rischiano di sommergerci.
Da La sonata a Kreutzer del grande Lev Tolsotj al miglior Simenon; o, per passare al grande schermo, dalla Great train robbery di E.S. Porter - che inaugura (1903) tutti i topoi di azione drammatica di cui farà tesoro il cinema americano e non - fino al famoso Treno del sole che , ancora pochi decenni or sono, trapassava da cronaca sociale a mito poetico nei versi del nostro concittadino Ignazio Buttitta.
Il treno, non so bene per quale strana ragione, si è imposto nell’immaginario letterario moderno come set ideale del romanzo: sia quando esso racconto il privato di anonimi cittadini –e lo spazio angusto del vagone ferroviario sembra avere la luce giusta per fare affiorare al meglio il lato oscuro della psicologia umana – sia quando ci fornisce resoconti convincenti dei grandi processi storici, nei quali le folle anonime, da comparse, diventato spesso protagonisti dai tratti e dalle intenzioni ben delineate.
In treno comincia, e ci conclude, in una circolarità forse troppo prevedibile, la vicenda di Amara Sironi, giovane giornalista toscana che, nell’autunno del ’56, cronista di un quotidiano locale, si mette sulle tracce di un suo giovane amico di infanzia e primissima giovinezza, Emanuele Orenstein. Questi è il rampollo di una ricca famiglia ebrea viennese - ma con ricche attività industriali a Rifredi – che nel ’39, quando i più avveduti ebrei europei fanno di tutto per lasciare il vecchio continente, dissennatamente, o forse corrosi da un inspiegabili cupio dissolvi, rientrano dalla Toscana in una Vienna già annessa al Reich hitleriano e in preda a epurazioni antisemite ormai apertamente praticate.
Il distacco che la Storia infligge a i giovanissimi Amara e Emanale è, in un primo tempo, mitigato da una fitta corrispondenza epistolare, che non si interrompe nemmeno quando la famiglia Orenstein viene espropriata di tutti i propri beni e sfollata, insieme ad altre migliaia di ebrei provenienti da altri paesi dell’Europa centrale, nel ghetto della città polacca di Łodz. La corrispondenza però, poco a poco, si assottiglia, finché, nel ’43, si interrompe del tutto, Soltanto a guerra terminat, ad Amara verrà recapitato ,misteriosamente, un quadernetto con le lettere non spedite di Emanuele: le missive che precedono, di pochissimo, il suo internamento ad Auschwitz. Da qual momento, di Emanale sembrano perdersi le tracce.
La ricerca di Amara si dipana proprio a partire da quel quadernetto nero di lettere non spedite. Con quel quaderno nello zaino come un talismano (o come una bussola), Amara si reca a Vienna – che come la Vienna cinematografica de Il terzo uomo gronda ancora di sofferenze e privazioni, retaggio della guerra,e della civiltà, perdute –e proprio sul treno conosce un uomo, più anziano di lei, che diventerà il suo compagno di avventura nella ricerca di un passato troppo doloroso per poter essere ritrovato davvero.
A scanso di equivoci, bisogna dire, ma senza anticipare altro al lettore, che la ricerca di Amara avrà esito: ma non avrà buon fine, nel senso che, il ritrovamento di Emanuele, non sarà il colpo di scena finale. Diversamente da ogni buona trama canonicamente costruita, il ‘ritrovamento’ non metterà ordine nella storia, e nella vita, dei personaggi. Anzi, la sbriciolerà ancor di più, toglierà loro consistenza e sicurezza. Il vortice della Storia, degli avvenimenti che sconvolgono la vita degli individui prima, e delle società poi, per Amara ed Emanale, non ha smesso di soffiare, nemmeno a 11 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale.
La storia non ci è magistra di niente, diceva il grande Eugenio Montale, così maltrattato ai recenti esami di Stato. Amara, e il compagno conosciuto in treno – per una serie di scelte fortunose e intelligenti scampato, lui figlio di un’ebrea, ai campi di sterminio nazisti – hanno occasione di constatare la dissennatezza di corsi e ricorsi storici quando, per varie vicende sulle quali sorvoliamo, si trovano testimoni oculari della rivolta d’Ungheria del ’56. La giovane giornalista – come la Teresa ti Kundera – si ritrova in mezzo a eventi più grandi di lei. Una testimone muta, che prova a raccontare tramite qualche articolo giornalistico l’enormità dei fatti d’Ungheria: ma le manca il cinismo e il ‘mestiere’ necessario per trovare i canali giusti in giornate di caos ed emergenza. E quegli articoli, che potevano cambiarle la vita, si riveleranno un boomerang per le sue aspettative professionali.
Quell’esperienza, però, le aprirà gli occhi sul filo rosso che lega insieme la sua vita e quella di milioni di altre persone: ed è il filo rosso di una violenza mai sopita, di una crudeltà e una svalutazione della vita umana che è la vera costante, l’autentico tratto comune, tra le varie impalcature ideologiche che hanno sorretto le diverse esperienze totalitarie del Secolo Breve. E se un’affermazione come questa, fuori da un contesto narrativo, potrebbe apparire riduzionistica o semplicistica (i colori politico-ideologici dei diversi olocausti continuano ad avere mercato tra storiografi e politologi), nell’abile e attenta narrazione della Maraini ha il merito di diventare un’argomentazione scarsamente confutabile.
Non c’è ideologia, qualunque sia il suo tasso di messianesimo, può giustificare l’olocausto anche di un solo essere umano.
La storia personale della giovane Amara si scontra con la Storia doloroso e sanguinosa del presente (i fatti d’Ungheria); è segnata dall’esperienza del distacco amicale e sentimentale, per motivi razziali, dal giovane Emanuele, ma anche dai disagi e dalle violenze degli anni bui del secondo conflitto mondiale; ma sembra addirittura essere segnata in maniera atroce da un destino di violenza, quando scopre che sua madre, la bella e fiera Stefania, da ragazza, prima del matrimonio, è stata violentata da una squadraccia fascista. Un turbine di insensata violenza si è abbattuto sul mondo o, in qualche modo, la Storia, da cui non sappiamo apprendere nulla, è stata sempre così?
Ma il fluire degli eventi non lascia le persone indifferenti o uguali a se stesse. È la lezione che Amara apprenderà, nella maniera più dura e meno consolatoria, dal ritrovato (?) Emanuele. Un uomo che la Storia, e gli uomini che la fanno, hanno cambiato persino nel volto, nel corpo – la tavoloccia sulla quale la violenza e la crudeltà dipingono le la loro immutabile tela – oltre che nell’anima. Un ritrovamento, quello di Emanuele, che non sarà seguito da alcun ‘riconoscimento’: il passato, quello condiviso e quello irraccontabile, non sono riunificabili in un unico segmento di vita. Non c’è ponte che possa essere lanciato su quel girone infernale che è la realtà concentrazionaria. L’Emanuele conosciuto ed amato dalla giovane Amara è rimasto nel tempo infinito dei ricordi: quello diruto e desertificante della Storia gli ha restituito un uomo che non riconosce come suo vecchio amico e promesso amante. Un uomo che non sa più riconoscere in sé, sopravvissuto a orrori e bassezze che prova invano a raccontare, l’umanità.
Il romanzo della Maraini, ambiziosissimo, prova fare i conti con l’intera Storia del novecento. E, nel farlo, si misura, implicitamente o meno, con tutto ciò che la letteratura ha già fatto, ed è tanto, per denunziare, con il semplice strumento del racconto – cioè del mettere davanti agli occhi o nelle orecchie di tutti – i mali di cui non riusciamo a liberarci e che la cronaca, oltre che la Storia, continuamente ribadiscono. Non faccio, volutamente, alcun nome: ogni lettore troverà da sé le assonanze che più gli aggraderanno.
Ma non posso non pensare (e segnalare), davanti alla scena finale di Amara che, in treno, prova a scacciare i fantasmi del suo presente, ostinatamente costruito, leggendo Conrad, alla grande e discreta Grazia Cherchi che titolava un suo bel volume di saggi e recensioni Scompartimento per lettori e taciturni . Come dire, in treno possono prender corpo storie incredibili e, il treno, è il posto migliore per cominciare a leggerle. Perché il leggere, se non ci rende per forza migliori di ciò che siamo, di sicuro non ci fa peggiori. “Non c’è niente di meno aggressivo di un uomo che abbassa lo sguardo per leggere il libro che ha in mano” (E.Vila-Matas).
Maurizio Padovano 10 luglio ‘08