Quella sfida cui mai, si può dire, ho ripensato essendo stata da me completamente dimenticata, me l’ha fatta ricordare Angelo Gargano.
Il luogo: Maggiacomo, proprietà agricola con casa di campagna sulla statale 113, proprio di fronte il cimitero di Santa Flavia, a due passi da quell’albergo delizioso che era ancora La Zagarella e accanto dove adesso sorge un pizzeria, La Baia dei fenici.
L’occasione: la mia prima laurea in filosofia nel 1972 (o forse1973) e i festeggiamenti organizzati per essa con gli amici, grigliata di carne e salsiccia e beveraggi vari, vino abbondante incluso.
Da quella festa sono ormai trascorsi più di quarant’anni e uno degli sfidanti, Michele Toia, non c’è più mentre l’altro, Nino Morreale, continua i suoi studi storici.
Angelo Gargano dunque!
Quella volta c’era anche lui e …chi altri? Nino Morreale e Michele Toia, Vincenzo Drago, Peppino Rotino, che mi ci spartivo il sonno, Totuccio Morana, Agostino Puleo, Ignazio La Monica, Nicoluccio Galioto, Gino Castronovo, Peppino Gumina, forse Franco Di Quarto, e gli allora ‘pulcini’ Mariano Lanza, Ciccio Morana, Mommino Scaduto…il carissimo e simpaticissimo Mummino che ci ha lasciato poco più che ventenne mentre faceva il soldato, si disse allora per la rottura di un aneurisma.
E sicuramente altri che non ricordo.
Dopo quella volta ci si cominciò ad allontanare, e nel giro di poco tempo dopo l’università e la laurea ognuno se ne andò per la sua strada, perchè così è la vita; ma quelli che ti sono stati amici, se in quarant’anni li vedi solo quaranta volte, una volta sola in un anno cioè, è come se li avessi avuti sempre vicini.
Angelo mi sollecitò a scrivere qualcosa su quella sfida e io, da quel momento, a una cosa sola ho pensato, a un episodio del film ‘L’oro di Napoli’ e, precisamente, a quello in cui Eduardo De Filippo disquisisce, e con quale serietà, sul pernacchio.
A quelli del quartiere che gli si rivolgono perché consigli loro la punizione che essi devono infliggere al loro nemico, è infatti l’esecuzione di un pernacchio che Eduardo suggerisce prescrivendo, come fosse una medicina, quante volte deve essere somministrato ( quando quel nemico esce di casa e quando rientra ) e come ( mano molle, labbra umettate, dita alzate ).
Con un pernacchio come quello fatto da Eduardo si può fare la rivoluzione; attenzione però! il pernacchio è un’arte ed è diverso dalla pernacchia , cosa brutta e volgare ( ma quale esilarante performance comica concesse la volgare pernacchia al tenente tedesco al già maturo Totò del film I due marescialli), sono soltanto in tre o in quattro a Napoli ( e quindi in tutto il mondo ) a saperlo fare.
Perché ho pensato a quel film? Perché, attaccatomi al computer ho rivisto, e più volte, quell’episodio?
Perché ho cercato tra i miei libri, fin quando l’ho trovato, quello di Giuseppe Marotta andandovi a leggere il racconto da cui l’episodio fu tratto?
Forse che quella sfida in campagna, a Maggiacomo, fu sfida di capacità sonore come quella in cui don Ersilio Miccio, venditore di saggezza, eccelleva?
No, ma fu comunque confronto a base di sonorità, degna conclusione d’un’abbuffata senza etichetta, una sfida insomma tra particolari abilità.
Non ricordo chi fosse stato a cominciare; forse Mommino Scaduto, o forse Nicoluccio Galioto, capacissimi di farlo e di replicarlo un rutto d’autore, ma come si suol dire oggi quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare e scesero in campo i professionisti, ma che dico professionisti? scesero in campo gli artisti, i virtuosi del rutto.
Sta di fatto che la prima sonorità fu sicuramente di pancia mentre le altre, quelle di Michele Toia e di Nino Morreale, i finalisti della insolita gara, furono erutti di petto e di testa, come lo erano i pernacchi d’Ersilio-Eduardo, e raggiunsero i livelli dell’espressione artistica.
Nell’ilarità generale anche un po’ sopra le righe per il tanto vino che aveva innaffiato le vivande i due solisti alimentando con birra e muluni russu i loro visceri raggiungevano vette epiche per sonorità, intensità e durata.
I due contendenti avevano ognuno un proprio metodo per ‘evocare’ il rutto: mentre l’uno si massaggiava e poi comprimeva l’addome, l’altro sfruttava una diversa tecnica di i(n)spirazione ed espirazione: insomma fu una coinvolgente battaglia all’ultimo rutto.
Vinse ai punti Michele Toia, dicevo buon’anima, che quello straordinario successo decantò tutta la vita e che con il passare degli anni, come sempre accade quando i fatti della nostra gioventù vieppiù si allontanano, dilatava a dismisura nei ricordi, volume e durata dei rutti assimilati a rombi di tuono premonitori di una tempesta.
E la sfida venne nobilitata, e non mancavano le teste, con citazioni classiche: che gli antichi romani dopo ogni mangiata facevano così, che un tempo era un modo per dimostrare di avere apprezzato le pietanze, che lo dicevano Catullo, Orazio e compagnia cantante ecc..ecc..
Ed a conclusione della periodica rievocazione dell’evento Michele ricordava sempre che da quel giorno suo figlio Peppino, allora cinque o sei anni, che si era portato dietro per ‘educarlo’ a stare con gli adulti, aveva iniziato a guardarlo con più considerazione e rispetto.
Al vincitore mancò solo il serto di alloro
Biagio Napoli
Angelo Gargano