Il fine filologo Antonio Pane (studioso per eccellenza di Pizzuto e Fiore ) nel 2002, nel recensire la ristampa, Polistampa, 2001 del libro di Renzo Martinelli: I giorni della Chiassa, (1945) così scrive: “Molte cose rimangono nella mente : il biondo cavaliere, il partigiano-arcangelo volato a liberare un intero villaggio in balìa della morte,…… sembrano smentire, nella verità della loro vita ulteriore, la disillusa auto epigrafe del “povero racconto stampato, che il tempo, farà sempre meno vero”.
Sembrerebbe che Antonio Pane non recensisca un romanzo, ma una fiaba, una favola con lieto fine. La stessa cosa era capitata a Santino Gallorini che negli anni ’80 trova nel marciapiede della stazione di Firenze, una copia della prima edizione, mancante di molte pagine,[la Chiassa è il quartiere accanto al suo ad Arezzo] e in effetti lo considera un romanzo di fantasia, solo quando esce la ristampa del 2001, trovandone una copia in una bancarella dell’usato, la compra incentivato dal prezzo(1 euro), e ha modo di confrontarne l’appendice e la prefazione.
Qui capisce che la storia è vera e si meraviglia di come non ci fosse una memoria collettiva, una via dedicata al partigiano…. Del resto che di quella storia si era persa memoria, lo attesta Francesca Chianini, testimone di quei fatti, che nel racconto in appendice sempre della ristampa del 2001 in: Ricordi, così scrive: “Passata la guerra fu fatta ricerca di questo studente al quale il paese intero doveva la vita, ma non fu possibile rintracciarlo. Era forse morto?”.
Di quei fatti il Gianni Mineo non ne parla nemmeno in famiglia, (se non del suo cavallo bianco, e negli anni ’60 scriverà dei fogli di diario) l’unico con cui ne parla è il compagno, Rosario Montedoro, (noto a Bagheria come il professore della scuola Ciro Scianna, morto nel 2003), di cui il figlio Giovanni Montedoro è fedele custode di racconti , e testimone degli incontri del padre con Mineo che avvenivano negli anni ’50 durante le vacanze a Bagheria. La figlia di Mineo, Evi Rosalia sposerà un giovane bagherese conosciuto in una di quelle vacanze, Domenico Galioto, Mimmo per gli amici, e qui rimangono a vivere.
Un laterale testimone è il marito della figlia Caterina, oggi vive a Novara, durante la presentazione del libro ad Arezzo il 4 novembre scorso dichiara: “[ Negli anni 70, durante un viaggio con un camion al sud, mio suocero mi porta a vedere una chiesa ad Arezzo, e nella piazza mi racconta di avere salvato 200 civili, di avere liberato un colonnello tedesco……. Io pensai subito che mio suocero era un racconta balle]”.
In effetti sembra una storia dei paladini di Francia uscita da una pala dei Fratelli Ducato, Mineo con il suo inseparabile cavallo bianco, sembra la materializzazione di quei personaggi, nato in una Bagheria mitica che, Ignazio Buttitta altro partigiano e poeta, ci ha cantato insieme a Ciccio Busacca, che Renato Guttuso ci ha dipinto nella serie dedicata alla resistenza per l’appunto, sembra un ritratto uscito da una foto e narrata in quel capolavoro che è “Quelli di Bagheria” di Ferdinando Scianna.
Sembra una parte mancante nel film “Baaria” , o uno spezzone proiettato dentro il film “Nuovo Cinema Paradiso” di Peppuccio Tornatore.
Mineo è figlio legittimo di questa Bagheria, nel bene e nel male, [seppure nato a Santa Flavia e come tanti vissuto e morto fuori] il padre Francesco, (cugino del più famoso Antonio Mineo, uno dei tanti boss di mafia di Bagheria ), scompare per lupara bianca nel 1923, quando Gianni ha 2 anni (il prefetto Mori arresterà nel 1924 a Bagheria circa 500 uomini d’onore), il fratello Benedetto, è un sopravvissuto dell’ARMIR. I nonni materni sono allevatori di cavalli da corsa, e la passione per i cavalli, Mineo la continuerà sia da partigiano ma anche per professione dopo la guerra, e farà anche l’ operaio o il camionista.
In questi giorni un amico docente di storia mi racconta che all’archivio di stato si è imbattuto in atti del 1880, che parlano di una battuta dei regi Carabinieri nelle colline di Bagheria, alla ricerca di un brigante Mineo, ricercato insieme alla moglie e alla figlia, non escludo che si riferisca ai nonni o bisnonni di Gianni Mineo. Mi piace pensare che come diceva Giovanni Falcone, “La mafia ha avuto un inizio, una vita, e avrà una fine”. Le vicende familiari con la mafia della famiglia Mineo a Bagheria per quanto riguarda Gianni sono stati una parabola, che hanno avuto un inizio e una fine, testimoniata dai fatti e dai comportamenti.
Durante la presentazione del libro ad Arezzo, dall’autore si sono presentate persone con altre testimonianze, oltre a quella citata del “genero”, cittadini di Anghiari, il paese nelle cui montagne era stato nascosto il colonnello tedesco dai partigiani stranieri, hanno ricordato che i tedeschi li avevano minacciato che se il colonnello non fosse ritornato vivo, avrebbero bruciato tutto il villaggio. Sembrerebbe una normale minaccia, ma voglio ricordare che a Civitella sempre nella stessa zona di Arezzo e della Chiassa, giorni prima erano stati uccisi tre tedeschi, e per rappresaglia nello stesso giorno che invece alla Chiassa si realizza il “miracolo” di Mineo, vengono fucilati e dati alle fiamme con le loro case, in un rastrellamento, 200 cittadini di Civitella, il 29 giugno 1944.
Nuovi elementi stanno venendo fuori in queste settimane, quali quella del terzo partigiano riconoscibile in Rosario Montedoro, ma tanti altri particolari spero possano scaturire dalla giornata di riflessione sul contributo dei siciliani nella Liberazione (1943-45), che si farà a Palermo presso l’Istituto Gramsci Siciliano, venerdì 28 novembre, ore 17,30, e per la presentazione del libro di Santino Gallorini: "Vite in Cambio, Gianni Mineo, il partigiano infiltrato, che salvò dalla strage la popolazione della Chiassa”, sabato 29 novembre, ore 17,30, presso Villa San Cataldo a Bagheria.
Infine per riallacciarmi al profetico Antonio Pane, nella seconda parte della citazione: “sembrano smentire [i personaggi del romanzo] nella verità della loro vita ulteriore, la disillusa autoepigrafe del “povero racconto stampato, che il tempo farà sempre meno vero”. Se in Pizzuto e Fiore la verità narrata assume una nuova forma di verità rispettivamente estetica musicale e filosofica, in Martinelli, al personaggio narrato quasi lo forza per fargli assumere materializzazione e verità come se venissero da un altro universo: “All’improvviso, s’ode un galoppo, e come in sogno, ecco apparire agli agonizzanti allibiti, e alle non meno allibite sentinelle tedesche, un bel giovanotto a cavallo…..” “ Ecco, - dice il cavaliere – riporto i due prigionieri. Per quanto la cosa possa apparire esageratamente novellistica, la verità e che si tratta proprio del colonnello….”
Franco Ciminato Referente ANPI Bagheria