Siamo davvero un Bel Paese, appellattivo coniato da Padre Dante Alighieri (del bel paese là dove 'l sì suona) e che nel corso dei secoli ci siamo meritati - agli occhi del mondo intero - per il nostro clima, il nostro paesaggio, la nostra cultura. Forse sarebbe più corretto dire che un Bel Paese lo siamo stati, e che questi ultimi 20 anni di regime repubblicano democratico - sotto le insegne di un populismo mediatico che ha permesso che si avvicendassero al potere due jocker dal medesimo cinico sorriso imbonitore - ci hanno posto nella condizione di rinunciare all'aggettivo "Bel" (stiamo svilendo le nostre riserve di bellezza a una velocità sciagurata) e forse, tra poco, anche al sostantivo "Paese", con tutto ciò che questo conporterà.
E "Paese", va da sè, per me in tale contesto significa anzitutto Democrazia.
La Democrazia ovviamente non si esaurisce nella sua costituzione formale: è anche un processo sociale che vive soltanto se si è formata in essa una società civile che si esprime nella pubblica opinione, attraverso i media. È così che si esercita una forma più continua e ramificata di controllo sociale sul potere politico, che in tal modo non risulta soltanto mediato dalle procedure della rappresentanza (partito, elezione, parlamento).
Il "Paese" e la sua Democrazia (cioè le sue diverse forme di controllo del potere politico) - per come sono venuti fuori dalla lunga e dolorosa marcia di emancipazione dal Fascismo - sono da ormai venti anni attaccati con armi e strategie dalle quali è molto difficile difendersi con ordine e profitto. Se è vero che l'Italia tra il dopoguerra e la fine degli anni '70 ha avissuto una fase di generale consolidamento durante la quale si estendono i diritti di famiglia, il sistema sanitario, lo statuto dei lavoratori - pur tra contrapposte devianze quali il terrorismo e lo stragismo di Stato - è vero anche che dagli anni '80 ad oggi il Paese, con l'implosione parallela dei grandi partiti di massa, quelle espansioni sono state sistematicamente attaccate e progressivamente amputate.
La tesi di questa breve riflessione è che le vicende relative al dibattito pubblico sulla scuola pubblica di queste ultime settimane siano pienamente esplicative di questa guerra sporca, tutta giocata a livello mediatico ma i cui risultati cominciano a vedersi, drammaticamente, nel rapporto fra i cittadini e le istituzioni. L'arma di questa guerra sporca si chiama Storytelling: cioè imporre attraverso i media una narrazione che si sovrappone alla percezione autentica e diretta della realtà; narrazione che di fatto impedisce la conoscenza della realtà e della sua complessità perché vi sovrappone uno schema di facile comprensione ai più ma che è tendenzioso e parziale, semplificatorio e generalizzante perché crea pregiudizio e mistificazione. È il pezzo forte di Renzi e dei suoi cantores tutti di un pezzo come il sottosegretario Davide Faraone lo storytelling.
Così pervasivo e spesso spudoratamente menzognero da configurarsi come veroe proprio minchiatismo.
Caratteristica principale del minchiatismo renziano è l'aggressività per stereotipi verso tutti coloro che avanzano sani e legittimi dubbi - o peggio dissenso - verso la vulgata imposta dal Premier e dai suoi azzimmati scudieri.
La "narrazione" a proposito del ddl sulla riforma della scuola - imposta attraverso media mai tanto proni al potere nemmeno col Cavaliere - e delle proteste che in tutto il Paese hanno ormai preso vita, ne è un ottimo esempio. Secondo Renzi la scuola italiana va riformata da capo a piedi, altrimenti non sarà mai produttiva sul modello aziendale che ormai sembra l'unico modello di riferimento per pensare ai rapporti sociali e di lavoro.
Mi chiedo: arrivasse un extraterrestre a osservare e valutare i problemi del "Paese", indicherebbe nel Sistema scuola una priorità assoluta? o si limiterebbe a ricominciare a considerarla, nel bilancio dello Stato, un investimento piuttosto che una spesa (magari preoccupandosi di racimolare i contanti per la ristrutturazione degli edifici cadenti o caduti)?
Il mese di maggio, nei primi dodici giorni, è stato scandito da piccoli grandi eventi "scolastici" che, in misura significativa, hanno interessato pure Bagheriopoli. Come il flashmob dello scorso 4 maggio di cui su queste pagine ha raccontato, con la lucidità di analisi che gli è consueta, Giuseppe di Salvo. Il Maestro Giuseppe Di Salvo. Come lo sciopero del successivo 5 maggio (quasi tutte le scuole della nostra città non hanno svolto le attività didattiche), che per capillarità e percentuale di adesione è forse stato lo sciopero di categoria più partecipato della storia della Repubblica: ebbene, a tal proposito le dichiarazioni del governo per una volta hanno fatto apparire anche le Questure - la cui vocazione al ribasso nel computare i partecipanti alle manifestazioni di protesta è nota - dei mostri di obiettività statistica.
Dichiarazione "sottrattive" ben presto rinforzate da minacciose esternazioni dell'ineffabile sottosegretario Faraone, il quale fa della negazione al dialogo tra le parti una minaccia dozzinale e tristemente caricaturale. Ugualmente comici sono subito apparsi i numeri ammessi dall'Invalsi all'indomani del generale boicottaggio delle prove nelle secondarie superiori (12 maggio), dopo il boicottaggio altrettanto efficace avvenuto alle elementari pochi giorni prima (6 maggio).
Iniziative queste ultime che, per quanto discutibili come tutte le azioni individuali e collettive, hanno avuto il merito - mentre il Paese è in irreversibile dissolvenza - di compattare trasversalmente le "parti sociali" della scuola su questioni concrete: ovvero l'inutilità formativa e la tendenziosità di prove standardizzate che non riflettono in nulla la complessità del fare scuola, del trasmettere cultura, del costruire competenze di cittadinanza nella intrinseca pluralità del fatto sociale che la scuola riflette.
A differenza di quanto predica Renzi - nei suoi orwelliani video di "istruzioni per l'uso" degni delle peggiori satrapie sudamericane, video in cui mette disonestamente in relazione disoccupazione giovanile e sistema formativo - docenti ( in gran parte) studenti (in buona parte) genitori (in misura superiore ad ogni più rosea aspettativa) sanno bene contro cosa, e perché, stanno protestando. Stanno protestando contro la più assurda feudalizzazione del sistema scuola mai concepita in questo paese.
Stanno protestrando perché sanno bene - tentano di farlo ogni giorno - che le Prove INVALSI non c'entrano nulla con la formazione di persone dotate di senso critico e di capacità di orientamento nel mondo della complessità, ma addestrano invece a comportamenti standardizzati che non potranno mai essere significativi culturalmente.
Unica eccezione a tale reazione diffusa al minchiatismo renziano è rappresentata da gran parte dei Dirigenti Scolastici che, sentito nell'aria odore di sangue (saranno loro, secondo il ddl, a comporre l’organico, proponendo un incarico triennale agli insegnanti di ruolo inseriti nelle liste dell’ambito territoriale di riferimento per ora coincidenti con le province. I docenti che riceveranno più proposte potranno scegliere, e quelli che non ne riceveranno saranno invece destinati dall’ufficio regionale) prendono in alcuni casi a comportarsi come se il ddl fosse già legge.
Perchè sanno che probabilmente fra pochi mesi, grazie all'ennesimo rigurgito dell'eterno fascismo italico, saranno addirittura titolari della valutazione dei docenti: secondo il ddl infatti il dirigente scolastico, posto a capo di un comitato di valutazione individuato dal consiglio di istituto le cui funzioni saranno riviste al ribasso (due docenti, due rappresentanti dei genitori o un rappresentante degli studenti e uno dei genitori per il secondo ciclo) stilerà la hit parade dei meritevoli.
In pratica deciderà chi lavora e chi no.
Non si fosse nel Bel Paese del familismo amorale, forse ci si potrebbe astenere dal pensare che rinasceranno corti e camarille attorno ai Dirigenti. Invece norme come questa saranno la morte dell'art. 33 della Costituzione sulla libertà di insegnamento: libertà nella partecipazione agli organi collegiali e libertà professionale, nell’ambito delle quali si configura una sfera di autonomia tecnico professionale che rientra nella competenza specifica del singolo docente. La decisione collettiva (in seno agli organi collegiali) è poi la sintesi dell’espressione della libertà individuale di tutti.
È questo che perderemo con l'approvazione sic et simpliciter del ddl buona scuola? Questo e tanto altro. E quello che fra qualche anno a molti rimarrà sarà il rimorso di avere creduto, ancora una volta, a un minchiatismo ben orchestrato. Saltati sul carro del vincitore, perderemo tutti.
Maurizio Padovano, docente Liceo Classico 'F.Scaduto
Foto di repertorio