Un mondo perfetto.
C’è un libro del 1935, ha per titolo Volti bagheresi, una sorta di Quelli di Bagheria, nelle intenzioni forse (e a prescindere dai risultati ), ma senza fotografie, scritto nello stile dell’epoca, retorico e roboante ma prezioso, ricco di notizie. Filippo Cuffaro, che lo ha scritto, dedica molte pagine ai festeggiamenti del primo centennale di Bagheria come Comune autonomo che, per quanto datato 1926, venne festeggiato con otto anni di ritardo, cioè l’anno precedente la pubblicazione del libro.
L’autore, descrivendo dunque i festeggiamenti del primo centennale, svoltisi nei corridoi e nelle aule delle scuole elementari, a Palagonia, nel maggio del 1934 e in coincidenza con le tre giornate della festa del Patrono San Giuseppe ( ora festeggiato in estate ), e dando il quadro di una Bagheria che ormai non esiste più, ci presenta un mondo perfetto.
Egli dunque scrive: “La sera ritrovava Bagheria tutta infioccata di luce, con la sua gente felice che invadeva le arterie principali della città e si riversava alla mostra del centennale. Piazza Palagonia, con i festosi caroselli e le attrazioni spettacolari di cui era gremita; la sua alberatura rimembrante da cui si librava nello spazio l’agile stele votiva a perpetuo ricordo dei trecento caduti bagheresi nella grande guerra; il suo palchetto di musica in cemento armato, e la sua superba vastità, infine, nella quale era compreso il grande edificio della grande mostra, non era mai stata così bella e così piena di fulgori, se pur sventrata ad oriente dalla traccia della nuova via Roma, come in quella sera di domenica. Ma l’attrazione irresistibile per l’intelligente folla bagherese era pur sempre costituita dalla Mostra dei Cento Anni”(1).
Ma era tempo di crisi.
La crisi dell’agrumicoltura, particolarmente grave in quel periodo, fa però pensare come la condizione di vita di molti bagheresi non dovesse essere così felice come il nostro autore la descrive. Si trattava peraltro di una situazione ricorrente per cui “non deve stupire il fatto che la storia della limonicoltura tra il 1890 e il 1930 ( tanto per porre un termine ad quem ) sia in realtà una storia della Questione Agrumaria (…).
Le storture nella filiera del limone avevano contraccolpi sociali notevoli, dato il gran numero di uomini e donne che ne traevano sostentamento, ed andavano ad aggiungersi ai fattori generali di difficoltà per i ceti meno abbienti”(2).
In quegli anni la situazione fu aggravata dalla chiusura della grande fabbrica palermitana dell’Arenella che, “da sola, aveva una capacità produttiva pari all’intero fabbisogno mondiale di citrico”(3).
Nel 1931 verranno licenziati i suoi operai e resteranno senza lavoro anche gli operai delle numerose piccole fabbriche di citrato e di agro della provincia che rifornivano di materia prima l’azienda palermitana e ancora i moltissimi braccianti che lavoravano nella coltivazione degli agrumeti.
Migliore non era sicuramente la condizione dell’industria conserviera perché “già all’inizio degli anni 20 molti stabilimenti a Bagheria sono costretti a chiudere. Altri sopravvivono tentando la carta disperata del credito, utilizzando soprattutto le banche locali…La Banca Popolare, che è quella che più si espone con l’industria conserviera, è costretta a chiudere gli sportelli”(4).
Scrive Emanuele Nicosia: “Il fallimento fu dichiarato dal tribunale di Palermo con sentenza del 12 agosto 1930. La vicenda coinvolse centinaia di depositanti e creò un duro sconquasso nella vita della città”(5). Continuava a dare lavoro e benessere l’attività estrattiva del tufo che andò riducendosi soltanto a cominciare dagli anni 50 fino a scomparire del tutto. E, tuttavia, l’agrumicoltura bagherese poteva almeno contare su una organizzazione delle risorse idriche per l’irrigazione e su una notevole abbondanza d’acqua grazie alla creazione, nel 1924, del Consorzio Idro-Agricolo di Bagheria che riesce a distribuire l’acqua dell’invaso di Piana degli Albanesi, gestita dalla SASI ( Società Anonima Siciliana per l’Irrigazione), a pochi mesi dalla inaugurazione nel 1936.
Però c’era il Duce.
C’è dunque una forte crisi economica anche se Filippo Cuffaro non la vede e descrive un mondo felice. Il perché comunque si comprende subito.
Dopo la tirata su piazza Palagonia a festa, egli infatti continua: “Seguiamo la folla che si commuove e si esalta. Nella prima sala a pianterreno la prima cosa che fa alzare il capo ed aguzzare la vista del visitatore è un quadro: DUCE :l’ispiratore supremo di ogni supremo ideale, il Duce. Fermiamoci un momento e illudiamoci per un istante di considerare il Duce come Bagherese.
Vi sorride questa idea, non è vero? Ebbene non vi sembra che egli sia veramente Bagherese? Guardate come il suo volto di aquila imperiale si libra nel cielo di Bagheria . Egli vigila sui nostri destini. Egli pensa a noi, parla a noi, opera per noi. Il Duce è dunque Bagherese.
Mi domando se assente Mussolini dal timone d’Italia i Bagheresi avrebbero concepito una mostra di un secolo di attività nei campi dello spirito e del lavoro. Certo che no!
Senza Mussolini che ha impresso l’orma della sua scarpa sul deretano della vecchia educazione individualistica e mentecatta i Bagheresi non avrebbero mai trovato un clima adatto per potersi esaltare”( 7 ).
Peppino Verdone: dalla Casa di Cultura al fascismo.
Le sale in cui si dipana il percorso espositivo della mostra delineano come essa, più che festeggiare il centennale di Bagheria, costituisca una autocelebrazione del fascismo locale.
Difatti, oltre alle sale della Bagheria agricola, artigiana e industriale, oltre a quelle dei poeti e degli artisti ( espone anche un giovane Guttuso ), ecco la sala della ONB con “la simpatica documentazione di dieci anni di regolare e intensa attività balillistica”(8), la sala dello sport con “i baldi avanguardisti che espongono il documentario della loro disciplinatissima, virile, attività”(9), la sala del dopolavoro, ente organizzativo della mostra, e quella del Nuf.
E il percorso inizia, come già sappiamo, con l’esposizione, nella prima sala a pianterreno, del ritratto di Mussolini fatto dal cavaliere Verdone che, per l’occasione, aveva anche preparato un numero unico e che, oltre ad avere fatto il giornalista, faceva anche il giornalaio perché quel numero unico era lì a venderlo: “Testo e pupazzetti del cavaliere Verdone. Quattro soldi”(10).
Peppino Verdone era un intellettuale di lungo corso. Negli anni d’inizio secolo fu infaticabile organizzatore di recite ( si ricorda anche una Tosca ) nei locali del teatro comunale che, come scrive Oreste Girgenti, “forse stanchi di avere fatto trascorrere ore liete di svago ai cittadini si sono trasformati in deposito di carri funebri”(11). Peppino Verdone fu anche abile polemista.
Nella Guida Bagheria Solunto del 1911, a firma di Salvatore Scordato, leggiamo: “Un giorno d’estate c’era stata una pubblica riunione al Municipio a proposito di una questione agrumaria. Eravamo in molti e scendendo dal Municipio ci raggruppammo sotto la tenda ospitale di Fanuzzu: là fu decisa, per ingannare gli ozi estivi, la creazione del vecchio papà di tutti i giornali…U capurali…Ne uscirono circa dieci numeri…ne fu anima Peppino Verdone…Le invidiuzze e le suscettibilità personali procacciarono nientemeno che un primo processo al Capurali il quale tirò l’ultimo numero, lamentando la sorte che gli era toccata”(12). Ma Peppino Verdone non venne scoraggiato da questo incidente di percorso: fu infatti responsabile di numerosi numeri unici festivi e della collaborazione ad almeno due giornali ( L’Eco e il Trispit poi fusosi ,quest’ultimo, con la Protesta ) che, insieme a La nave e l’era nuova gestiti da altri, condussero una feroce battaglia anticlericale. Sempre nella Guida, a firma di Gioacchino Guttuso Fasulo ( che si nasconde dietro lo pseudonimo luminoso di Febo ), leggiamo: “Quando Peppino Verdone, quell’anima vibrante, mi parlò di questo suo divisamento, accolsi la cosa con scetticismo…ma…Peppino Verdone, quell’anima indemoniata , ha voluto, potentemente voluto, ed è riuscito. Una nuova utopia che, sospinta dalla forza del volere, si tradusse in fatto”(13).
L’utopia tradotta in fatto fu la Casa di Cultura che organizzò scuole serali, una scuola di disegno, la biblioteca “Mario Rapisardi”, e al Guttuso Fasulo fece scrivere: “Bando all’oscurantismo nefasto e avanti il libero pensiero novatore che si incarna nei nostri giovani”(14).
Fu la Casa di Cultura a stampare la Guida. Di essa, nell’introduzione alla sua ristampa anastatica del 1984, Peppino Speciale scrive: “Gli interventi contenuti nella Guida sono tutti ispirati e pervasi da un vivo senso della libertà, dalla razionalità e da una fiducia illimitata nel progresso umano e civile”(15).
Nonostante queste premesse Peppino Verdone fu poi fascista ( ma apparteneva al ceto degli imprenditori) e organizzò la Mostra dei Cento Anni.
Giovani fascisti crescono.
Era quello il momento del massino consenso al regime. Vale la pena riportare ancora una citazione dal libro di Filippo Cuffaro. A parte questo clima, essa ben documenta il percorso che portava i giovani borghesi dell’epoca ai ruoli di fascisti perfetti, orgogliosi ed arroganti.
Leggiamo dunque: “ Totò Nasca è stato tra i pochi a Bagheria a comprendere l’enorme importanza della costituzione dei primi fasci di combattimento. Il Duce non aveva ancora deciso la Marcia su Roma, e tu, Totò, con Antonio Voluti che portava da Fiume la sua piccola grande ferita e che di grandezza italiana aveva saturi il cuore e la mente; con Bartoluccio Amato e con me, tutti adolescenti e men che adolescenti; tutti sognatori e più che sognatori, concertavamo un piano di fascistizzazione bagherese e cantavamo, intanto, le canzoni in camicia nera; e non permettevamo che i quartarellisti e gli arzigogoli gottosi e spettatori ridanciani della china che passa ci deridessero o comunque attentassero alla integrità dei nostri ideali.
Poi ci appiccicammo un revolveraccio sulla pancia; conoscemmo i bagliori del sole rilucenti sul manganello educatore; fummo squadristi attivi; e la falange crebbe, quasi ci inghiottì. Dopo qualche anno noi lanciammo una serie di numeri unici. “Il Manganello”- “’U Manganellu”- “Manganello”- “Manganellu”- “Manganellate”- eccetera, per cui tu, Totò, intrepido direttore, e Bartoluccio, gerente responsabile, vi buscaste un processo per incitamento all’odio di classe. Ma…venne una sentenza magnifica, una sentenza glorificatrice: Assolti per fine nazionale”(16).
NELLA BOTTEGA DEL SALUMIERE E IN QUELLA DEL SELLAIO
Ma, nel giro di pochissimi anni, dopo le imprese africane e la guerra di Spagna, all’attività palese dei gruppi fascisti e dei corifei del consenso, farà da contrappunto quella segreta di alcuni giovani ormai dissenzienti.
Testimone di questa attività fu un giovanissimo Peppino Speciale. Egli, il 19 settembre 1979, durante il suo intervento per gli ottanta anni di Ignazio Buttitta, dirà anche: “La nostra amicizia risale al 1936…Ignazio…era un uomo impegnato, un antifascista schierato sulle posizioni del partito comunista, o almeno su quelle posizioni che a noi allora potevano pervenire attraverso mille difficoltà; soprattutto quello che ci legava al mondo erano le radio straniere, e lui che possedeva uno dei pochi apparecchi in grado di prendere le stazioni estere, ci consentiva di seguire questi notiziari; ed in particolare abbiamo potuto seguire i lavori del 17° Congresso del Partito Comunista Sovietico: certamente si trattava di un resoconto".
"Eravamo un gruppo di giovani intellettuali che si riunivano attorno a Ignazio Buttitta, da una parte, e dall’altra a Paolo Aiello, e fra questi, naturalmente, c’erano Renato Guttuso, Nino Garajo, Vittorio D’Alessandro, Filippo Lo Bue, l’operaio tornitore Gioacchino Lo Giudice, il bracciante Michele Monforte, l’operaio Placido Lanza; due centri di impegno antifascista: la casa di Ignazio, la bottega di Ignazio e la bottega di Paolo Aiello”(17).
Sarà ancora Peppino Speciale a narrarci quello che accadeva dentro la bottega di Paolo Aiello:
“Un giorno c’eravamo io, Vittorio, Filippo L. B., Filippo C., e Tanino. Paolo disse: fra un mese sarà l’anniversario della rivoluzione russa. Bisognerebbe che anche noi ci facessimo vivi almeno con un gesto dimostrativo…Infine Filippo L. B., sembrò che fosse stato fulminato da un’idea grandiosa. “Facciamo una bandiera rossa-disse- e andiamo a collocarla sul campanile della Madrice”, …I braccianti che a decine sostavano tutto il giorno in piazza, avrebbero visto! Sorse subito, però, un problema. La bandiera doveva essere quella della patria Socialismo. Il colore si sapeva, si sapeva benissimo. Quelle che non si sapevano erano le dimensioni. Ognuno si incaricò di fare ricerche per conto proprio…le ricerche durarono a lungo…il sette novembretrascorse e la bandiera non era ancora pronta. E fu così che i braccianti in piazza continuarono a guardare in alto ma non videro mai la bandiera rossa issata sul campanile della Madrice”(18).
Mastru Paulu.
Oreste Girgenti, che fu segretario del fascio, del poeta sellaio comunista farà un ritratto positivo nel 1985, dandoci notizia dell’attività culturale che già nei primi decenni del Novecento nella sua bottega si svolgeva. Chiuso all’inizio del secolo il teatro comunale i giovani, compreso Paolo Aiello, si sarebbero riuniti nei locali, con annesso teatro, del circolo “Leone XIII” di don Giuseppe Formusa, prete leoniano e fondatore della Cassa Rurale di Bagheria che erogava piccoli prestiti ai contadini attirandosi l’odio degli usurai. La Grande Guerra, e l’utilizzazione di quei locali per l’accoglienza dei profughi di Trento e Trieste, non fecero disperdere quei giovani “perché la bottega del sellaio poeta Paolo Aiello divenne centro di riunione e di cultura” e , mentre “il buon Paolo” e i suoi fratelli lavoravano, “qualcuno leggeva un romanzo, un libro di versi, una commedia, un dramma”(19).
Negli anni a venire, invece, chi si riuniva nella bottega del sellaio, di Oreste Girgenti non avrebbe avuto la stessa, buona, opinione. Di lui, nel 1998, Peppino Speciale scriverà: “Segretario del fascio era un avvocaticchio, piccolo anche di statura, accanito fumatore di nazionali e perciò sempre con una voce roca e sgradevole. Lo chiamavano il “tataranchio” appunto per la sua statura. Si fingeva amico di tutti, anche di quelli che come noi, non erano in odore di santità. …Non era facile mollarlo. …Ogni tanto faceva finta di passare per caso e ci coglieva tutti nella bottega di Paolo. …Allora le nostre eterne, astratte discussioni, dovevano, per ragioni ovvie, cessare subito. Cambiavamo discorso. …L’avvocaticchio ascoltava, interveniva, poi si stancava e se ne andava”(20). Ma l’avvocato Girgenti, che fu anche presidente dell’ONB, non era il solo fascista che nutriva ammirazione per quell’artigiano raffinato. Filippo Cuffaro nel suo libro scriveva: “Don Paolo, l’idolo e il despota dei carrettieri cui abbisogni un basto che non scortichi tanto la groppa del cavallo di famiglia…autore di una costellazione di libri pagati al tipografo fior di quattrini…chi volesse acquistare uno dei suoi libri ( non dico i titoli per non impressionare ) si rivolga alla Casa Editrice Aiutati presso Paolo Aiello alla bottega della Guglia” (21 ).
Paolo Aiello faceva dunque lo stesso mestiere del padre di Immanuel Kant cioè il sellaio; da autodidatta pervenne tuttavia ad una maturità culturale di tutto rispetto: commentava Dante, Boccaccio, Tasso e conosceva le opere di Marx. Di sentimenti religiosi, prima socialista divenne poi comunista e fu tra i fondatori, a Bagheria, subito dopo la guerra, sia del la sezione comunista che della Camera del Lavoro. Non poteva mancare tra i personaggi di Baaria dove è testimone della crescita umana e politica di Peppino Torrenuova.
Difende infatti il piccolo protagonista nella scena delle panelle, lo manda via dal negozio di barbiere dove si parla di politica e di Stalin perché non sufficientemente grande d’età, gli consegna finalmente la tessera del partito comunista all’interno della sezione, avanzano insieme ad altri nel corso Umberto col bottone del lutto sul petto per la strage di Portella della Ginestra.(22) Nei titoli di coda del film ascoltiamo la voce di Peppino Speciale che ne pronuncia l’elogio funebre.
E Ignazio, il poeta salumiere, che aveva le stesse idee di Paolo, il poeta sellaio, a suo tempo ( 1944 ) gli volle dedicare una poesia:
Mastru Paulu, quannu vegnu,
vogghiu asciari li sidduna
cu la brigghia e lu sustegnu
pi muntari li patruna:
Ca lu tempu è na minestra
e mi scantu ca un ni resta.
(…)
Mastru Paulu, li sidduna
hannu ad essiri divani
ca un sia mai ntra li gruppuna
ci facissiru custani:
Ca lu populu è gintili
e ncravacca a lu so stili(23)
Un arrivo a Bagheria all’inizio degli anni ’40.
Di questo gruppo bagherese di antifascisti avrà notizia Salvatore Di Benedetto quando, durante i primi anni di guerra, in uno dei suoi frequenti viaggi che avevano lo scopo di collaudare i collegamenti tra le varie realtà comuniste clandestine, venne a Bagheria. Siamo nella primavera del ’41 allorchè, giunto a Palermo, gli viene segnalato Vittorio D’Alessandro.
Così egli scrive: “Vado a trovarlo. D’Alessandro abita nella settecentesca villa dei Mostri. Mi chiede di rimanere fino a sera per potermi incontrare con i “matriciani”. Si chiamano così perché si riuniscono di notte sugli scalini della Chiesa Madre”(24). Ma Salvatore Di Benedetto avrà solo il tempo di visitare la madre di Renato Guttuso, in via Verdone, per parlarle del figlio. La donna, prima che egli prenda il treno per ritornare a Milano, gli offrirà “sul terrazzino degli straordinari maccheroni col pomodoro e le melanzane”(25). A Palagonia per cantare? Nei primi mesi del ’43 un altro luogo di Bagheria accoglierà le riunioni di un diverso gruppo di antifascisti. Era quello del nascente separatismo giovanile che, di lì a un anno circa, si costituirà in Lega con sede ufficiale in via Nasca n. 4. All’inizio però, come ricorderà Guglielmo Ingrassia che, di quel gruppo, faceva parte “se avevamo bisogno di discutere tra di noi (“cospirare”) si andava con la fisarmonica a Palagonia; facevamo finta di stare lì per cantare! C’erano degli altri, più anziani, a fare antifascismo…con questi personaggi, che erano comunisti, ci si rapportava con ammiccamenti, parole, qualche battuta e niente altro. Nessun rapporto politico, ci si capiva e tanto ci bastava”(26).
_____________________________________________________________________________________
1)Filippo Cuffaro, Volti bagheresi, Edizioni Domino, 1935, pp. 73-74.
2)Emanuele Nicosia, Bagheria operosa 1860-1960, Istituto Poligrafico Europeo, Palermo 2010, p. 35.
3)Ivi, p. 52.
4)Guida Bagheria Solunto, Casa di Cultura, 1911, Giuseppe Speciale, introduzione alla ristampa
anastatica del 1984.
5)Nicosia, cit., p. 70.
6)Per la storia della nascita del Consorzio e del contesto storico-politico in cui essa va inquadrata si veda
Nicosia, cit., pp. 127-134; per la critica allo statuto ( ispirato a “principi feudali” ) e alla sua gestione
si veda Giuseppe Speciale, Giornalista, politico, storico, Ufficio per la Cultura del Comune di Bagheria,
2006, p. 49 e pp. 153-159.
7)Cuffaro, cit., pp. 60-61.
8)Ivi, p. 71.
9)Ivi, p. 73.
10)Ivi, p. 62.
11)Oreste Girgenti, Bagheria origini e sue evoluzioni, Edizione Soleus, Bagheria 1985, p. 300.
12)Guida Bagheria solunto, cit., pp.42-43.
13)Ivi, p. 37.
14)Ivi, p. 40.
15.Speciale, introduzione alla Guida, cit.
16)Cuffaro, cit., pp. 46-47.
17)Speciale, Giornalista ecc., cit., pp. 88-89. Renato Guttuso, non seguendo l’antifascismo paterno, nel 1934
prenderà la tessera del PNF. Per la sua posizione “opportunista” nel corso degli anni Trenta si veda Maria
Antonietta Spadaro, Renato Guttuso, Flaccovio Editore, Palermo 2010, pp. 95-104.
18)Ivi, pp. 232-233.
19)Girgenti, cit., p. 301.
20)Speciale, Giornalista ecc., cit., p. 232.
21)Cuffaro, cit., pp. 8-9.
22)Rivediamo quel corteo nei ricordi di Mimmo Drago che vi partecipò. Egli scrive: “I partiti popolari
diedero vita ad una manifestazione di protesta per le vie cittadine. Aprivano il corteo che si muoveva
lentamente i “tammurinari”. Nelle strade, in cui era calata la sera, il suono dei tamburi, battuti con
perfetta sincronia, richiamava i braccianti tornati dal lavoro, gli abitanti dei quartieri poveri, si sentiva
solo il vociare dolce e innocente dei bambini, il passo lento dei muli e il rumore composto dei carretti
che riportavano a casa i contadini. Sfilammo in centinaia con vistosi bottoni neri sulla giacca con tanta
tristezza addosso. Fu un grande momento di unità popolare. Con i comunisti ed i socialisti, vi erano
i giovani della locale lega separatista con le loro bandiere”. Mimmo Drago, Il vento dei ricordi, Palermo
luglio 2004, pp. 26-27.
23)Ignazio Buttitta, La mia vita vorrei scriverla cantando, Sellerio Editore, Palermo 1999, pp. 104-106.
24)Salvatore Di Benedetto, Dalla Sicilia alla Sicilia, Sellerio, Palermo 2008, p. 40.
25)Ibidem.
26)Guglielmo Ingrassia, La lega separatista e il gioco dei notabili, Intervista a cura di Mimmo Aiello e
Vincenzo Drago, Il Paese, Giugno-Luglio 1983.
Biagio Napoli, 31.03.2012.