Il capitalismo siciliano? I non marxisti lo sapevano da tempo- di Franco Lo Piparo

Il capitalismo siciliano? I non marxisti lo sapevano da tempo- di Franco Lo Piparo

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Se il marxista scopre quello che il non marxista ha sempre saputo è un’ottima notizia da salutare con molti applausi. È il caso del recente libro del mio vecchio amico Antonino Morreale, Una storia negata. La nascita del capitalismo in Sicilia, Sellerio 2023.

La scoperta è che la Sicilia non è terra gattopardiana dove niente di nuovo accade e dove latifondo e feudalesimo perdurano fino all’età moderna: “rappresentazione panfeudale” – la chiama l’autore. È invece la regione in cui, nei secoli che vanno dal Trecento alla prima parte del Seicento, attorno alle culture della seta, della canna da zucchero, del grano nasce un modo di produzione capitalistico e di conseguenza una classe sociale nuova, la borghesia. Un processo che non ha niente da invidiare a paesi come Inghilterra e Francia.
È una tesi che storici liberali formatisi alla scuola di Croce avevano sostenuto a partire dagli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso. I capiscuola della storiografia siciliana non gattopardiana e non vittimista sono due personaggi dell’area catanese: Rosario Romeo e Giuseppe Giarrizzo che Morreale cita come ispiratori del libro annotando con molta onestà intellettuale che anche lui («chi scrive») fu vittima dell’immagine della Sicilia panfeudale (p. 20). Due studiosi geniali e in anticipo rispetto al loro tempo. Ho avuto la fortuna di frequentare a partire dagli anni settanta il secondo dei due personaggi. Ero giovanissimo (sono della stessa generazione di Morreale) e, nonostante non fossi uno storico, fu una esperienza che mi segnò anche nella mia professione di filosofo del linguaggio.
Naturalmente lo storico marxista una tale rivisitazione e scoperta può accettarla solo alla condizione che si dimostri che sia compatibile con lo schema marxiano e che Marx avrebbe sicuramente fatta sua se avesse studiato la Sicilia.
Marx in verità si occupò della Sicilia nell’articolo Sicily and the Sicilians pubblicato il 17 maggio 1860 nel giornale «New York Daily Tribune». L’immagine della Sicilia che vi viene rappresentata è ancora più mitologica e falsa di quella di Tomasi di Lampedusa. Ne riporto un frammento: «Quasi dal tempo in cui Polifemo passeggiava intorno all'Etna, o in cui Cerere insegnava ai siculi la coltivazione del grano, fino ai giorni nostri, la Sicilia è stata il teatro di invasioni e guerre continue, e di intrepida resistenza. I siciliani sono un miscuglio di quasi tutte le razze del sud e del nord; prima dei sicani aborigeni con fenici, cartaginesi, greci, e schiavi di ogni parte del mondo, importati nell'isola per via di traffici o di guerre; e poi di arabi, normanni, e italiani (sic!). I siciliani, durante tutte queste trasformazioni e modificazioni, hanno lottato, e continuano a lottare, per la loro libertà».
Sono parole che non hanno bisogno di essere commentate e che forse andrebbero bene per una presentazione pubblicitaria ad uso di turisti nordici.
Ma Morreale non cita l’articolo ma testi più solidi come Il Capitale e mostra che nella Sicilia dei secoli XIV-XVII sorge un modo di produzione capitalistico che è esattamente come quello descritto da Marx per l’Inghilterra.

Restano due fatti inspiegabili in questa ricostruzione.
Uno l’abbiamo già detto: come mai storici niente affatto marxisti come Romeo e Giarrizzo si erano accorti del sorgere precoce in Sicilia della borghesia mentre la maggior parte degli altri storici che frequentavano la letteratura marxista rimangono ciechi al fenomeno.
L’altro è ancora più complesso. Lo sviluppo capitalistico in Sicilia, nella ricostruzione di Morreale, si interrompe o comunque subisce un drastico rallentamento a partire dalla seconda metà del XVII secolo. Perché? È una domanda cruciale. Una buona risposta potrebbe condurre a identificare le manchevolezze dell’incipiente capitalismo siciliano dei secoli precedenti.
Qui Marx non aiuta o addirittura è un impedimento a capire. Il capitalismo non è solo un modo di produzione, è anche (soprattutto?) una cultura, intendendo per cultura un modo di stare nel mondo. La letteratura sull’argomento è vastissima. Procedo qui velocemente e per grandissime linee.
Il capitale è denaro accumulato che viene investito per produrre profitto ossia altro denaro. Il capitalista traffica col denaro. Se togliete il profitto e il denaro eliminate anche il capitalista. Per trafficare col profitto e col denaro è necessaria una cultura che li legittimi. Max Weber ha individuato nella religione protestante la cultura che ha accompagnato l’economia capitalistica: il profitto è vissuto come segno della grazia divina. Naturalmente sto semplificando molto.
Cosa accade in Sicilia nei secoli di crisi del capitalismo incipiente? Domina la Santa Inquisizione e la cultura del denaro come sterco del diavolo e, di conseguenza, del capitalista come potenziale peccatore. Vengono di conseguenza perseguitati gli ebrei che sono il ceto maggioritario dei banchieri. La banca è la grande assente nella ricostruzione di Morreale.
Era impossibile praticare il capitalismo con tale cultura. Dove attecchisce il capitalismo negli stessi secoli in cui l’incipiente capitalismo siciliano entra in crisi? Nei paesi di cultura protestante e nell’emergente Olanda dove ebrei ed eretici dell’Europa cattolica emigrano e possono svolgere liberamente i loro traffici commerciali e fare profitti.
Ma i marxisti ancien regime tutto questo hanno difficoltà a capirlo. Salvo uno che, vedi caso, aveva avuto una formazione crociana, non amava Il Capitale di Marx, pensava che i processi culturali fossero il motore dell’economia e della politica. Si chiama Antonio Gramsci. Ma qui inizia un altro discorso.
E comunque non si può non salutare con applausi la scoperta marxista del capitalismo siciliano!

Franco Lo Piparo

Professore Emerito Filosofia del linguaggio Università di Palermo