Alfabeto baarioto: don Carmelo, donna Pruvurenzia, don Turiddu...i pastari - di Mimmo Gargano

Alfabeto baarioto: don Carmelo, donna Pruvurenzia, don Turiddu...i pastari - di Mimmo Gargano

Storia Locale - Personaggi
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La richiesta venne nel corso di una delle tante riunione della famiglia, l'occasione: un compleanno (in una famiglia numerosa e che tende sempre più ad allargarsi per via dei ragazzi che crescono,
si fidanzano, si sposano, fanno figli c'è sempre da festeggiare il compleanno di qualcuno):

"Perché non metti per iscritto i tuoi ricordi del pastificio che papà aveva quando eravamo piccoli"?
" Ma chi vuoi che si interessi oggi a queste cose"?.
"Guarda che ti sbagli, ci sono molte persone cui fa piacere avere l'occasione di rievocare situazioni che appartengono ad una epoca in cui erano più giovani, e pertanto più felici".
" O almeno così credono".

Più facile comunque a questo punto accettare la richiesta, che immergersi in una discussione senza fine, e senza costrutto, circa il buon tempo andato ecc..

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Il pastificio, quello che io ricordo, era un piccolo pastificio che stava nella stessa casa dove la nostra famiglia viveva, "nno bagghiu Cavalieri"; era a sua volta l'erede di uno precedente in cui alcuni dei meccanismi (l'arbitrio) erano azionati a mano da mio padre coadiuvato, nei momenti in cui la richiesta era maggiore, da un lavorante; "Era a trazione animale" scherzavamo noi con mio padre, quando fummo più grandicelli.

(Di passaggio: questo tipo di macchinari avevano consentito a mio padre di lavorare con una certa regolarità anche durante la guerra quando gli altri pastifici di Bagheria, alimentati dalla elettricità, andavano soggetti a interruzioni della produzione a causa dei "black-out" allora -Rosolino Gagliardo imperante - molto frequenti; oggi solo un po' meno).

La prima fase della produzione della pasta era l'impastatura. La semola, allora come ora materia prima per la produzione della pasta, aveva un bellissimo colore dorato e i granuli più grossi di quella attuale (era più "cucciuta"; ho ancora il ricordo tattile dei granelli che scorrono tra le dita), veniva impastata con acqua nell'impastatrice, appunto.

A proposito dell'acqua: ricordo che fino ai primi anni cinquanta la nostra famiglia era una delle pochissime, nel quartiere, a disporre dell'acqua corrente in casa, per via dell'attività produttiva; tutto il resto del quartiere si riforniva ad una fontanella pubblica posta proprio davanti casa nostra che pertanto era un osservatorio privilegiato per godere lo spettacolo legato alla presenza di un gran numero di persone, donne in prevalenza, che facevano il turno per rifornirsi; le "sciarre" fra le donne erano all'ordine del giorno, e non raro era il passaggio a "vie di fatto" che di solito si esaurivano in accapigliamenti accompagnati da espressioni non proprio cortesi; l'intervento degli uomini, rarissimo per fortuna, complicava seriamente le cose.
Tornando all'argomento: dall'impastatrice l'impasto veniva passato ad un'altra macchina -la gramola- ove veniva lavorato a lungo tramite l'azione di due rulli scanalati, a forma di cono tronco.
Quando l'impasto era ben lavorato veniva trasferito in un grande cilindro cavo di ghisa - il fonte- con una apertura superiore per il carico (e per questo serviva una scaletta di legno " u triscaluni") e una inferiore che era chiusa dalla cosiddetta "piatta", (Trafila in lingua italiana); sull'apertura superiore veniva applicata una chiusura che tramite la spinta di una "pressa" costringeva l'impasto ad uscire dal basso attraverso la piatta.
Le piatte erano dei dischi di rame con un diametro di circa 25-30 cm., spessi  7-8 cm., e pesanti ognuna alcuni chili, variamente traforati; era la varia dimensione dei fori, a fare sì che si ottenessero i vari formati di pasta.
Allora, come ora, si distinguevano fondamentalmente due tipi di pasta:
Pasta lunga: Tria ( termine arabo che stava ad indicare la pasta) fina, tria bastarda, filateddu, filatu, maccaruncinu e zitu, e Pasta corta ("pasta tagghiata"): ‘i carduni, i magghietti (ri zitu, ri maccaruncinu, ri filatu), ‘attuppatieddi, i muccunieddi).

La pasta lunga veniva fuori dal fonte in forma di ammasso di fili ondeggianti; quando questo fiotto aveva raggiunto la lunghezza voluta veniva caricata a metà della lunghezza sul braccio sinistro e con l'altra mano, con un particolare coltellaccio a lama ricurva, veniva tagliata proprio sotto il punto di emersione dal fonte, e stesa su una canna; quindi con rapidi e precisi movimenti i fili venivano stesi sulla canna in strato singolo.

Aggiustato il bordo inferiore, la pasta stesa sulle canne era pronta per l'ultimo, e più delicato passaggio consistente nell'asciugatura. La pasta "tagghiata" all'uscita dal fonte veniva raccolta direttamente sulle "tele",sorta di graticci col fondo di grossolana tela o di rete metallica finissima.

Nel mio ricordo la fase della asciugatura era quella tecnicamente più difficile in cui si valeva la maggiore o minore abilità del pastaio; si trattava di esporre la pasta alternativamente al caldo e al fresco per ottenere una buona asciugatura senza che si provocassero in essa incrinature (in questo caso si diceva che la pasta era venuta "canniata" e ciò era causa di lamentele da parte dei clienti).

Durante la buona stagione di giorno la pasta lunga, posta a cavalcioni nelle canne, veniva esposta al sole, le canne poggiate su sostegni di ferro murati sulla facciata della casa, e la sera ritirata e sistemata in un locale fresco ("'il riposto"); la pasta tagghiata subiva lo stesso trattamento stesa questa volta sulle tele.

In inverno per ottenere l'asciugatura si usava un locale riscaldato tramite una stufa, la nostra andava a carbon fossile, ("carbuni ri pietra ": ricordo ancora la sensazione, che ora definirei spiazzante, che provai quando preso in mano un pezzo di carbone ne ebbi a verificare anziché la attesa leggerezza. una pesantezza estrema -come di pietra appunto-) e in cui un grande ventilatore diffondeva dappertutto l'aria calda.
A questo punto la pasta era pronta per essere venduta, sfusa, e al piccolo dettaglio - tri unzi ri bastarda, un'unza e mezza ri triafina, un ruotolo di maccaruncinu e così via - nella nostra piccola putia, annessa al pastificio.

Era questa un negozio, ora come allora, definibile come di "alimentari e diversi" in cui convivevano in serena promiscuità la pasta appunto, biscotti -"Bovolone", gallettini, savoiardi-, legumi, e poi cioccolatto e crema Ferrero che veniva venduta sfusa (ancora prima che nascesse la mitica Nutella), formaggi -‘ncannistratu, cascavaddu, primusali - di cui ci si riforniva a frazioni di "pezze" e che veniva rivenduto al piccolissimo dettaglio-, sarde salate, "a murtatella " e "a fillata" ( l'odierno salame), articoli per bucato - sapone sfuso bianco e scuro, a "spunzina" che si tagliava a tranci da un grosso rotolo, "u lisciuni", "azzuolu"- calze di seta- contenute queste in scatole di cartone con sopra incollate immagini a colori di donne belle e famose con relativa didascalia ( è rimasta impressa a fuoco nella mia mente di bambino una di quelle foto con relativa scritta: "Deborah Kerr nella parte di Lycia nel colossale Quo Vadis?)- articoli per piccola sartoria - "avugghi", "marreddre" di cotone, "spagnolette" di seta-, articoli di cartoleria e quant'altro la fantasia (di allora!) potesse immaginare.

 

Scheda:

Carmelo Gargano, Provvidenza Giammanco, Savatore Speciale, erano solo alcuni dei titolari della decina di piccoli pastifici e mulini che nel periodo tra le due guerre esercitavano la loro attività nei quartieri popolari di Bagheria. Ne abbiamo contati con l'aiuto di qualcuno più anziano di noi una decina.

Quello di "don Carmelo Gargano" u pastaru di cui si parla nell'articolo, e poi in Via Di Pasquale il pastificio dei fratelli  Carcione , che avevano anche un piccolo mulino, pare ancora sopravvissuto in Via Spanò. E poi Salvatore Speciale in Piazza Sepolcro, Provvidenza Giammanco, che aveva il pastificio in Via Nasca e il punto di vendita in Corso Umberto proprio di fronte all'edificio delle Poste: e questo fu l'ultimo a scomparire intorno agli anni '70 ed è quello che ricordano anche i cinquantenni.

E poi in Via Farina il mulino e pastificio Gagliardo, in Via Carà il pastificio Fricano, ed altri .Sicuramente ne dimentichiamo parecchi, ma speriamo che qualcuno abbia tempo e voglia di censire queste piccole attività produttive che fecero al tempo, di Bagheria un  paese intraprendente e laborioso.

A Bagheria c'erano anche due grosse attività di questo genere: il mulino "Chiello", proprio di fronte la stazione ferroviaria (lato Aspra), che andò a fuoco in un incendio rimasto memorabile intorno agli anni '70; e poi il mulino e pastificio dei fratelli Cuffaro proprio accanto a Villa Cattolica.

A Casteldaccia c'erano due grosse attività del genere più che artigianali:  il mulino della famiglia Tomasello che si trovava (e si trova almeno l'immobile) dentro il centro abitato mentre l'omonimo  pastificio si trovava, e si trova, proprio di fronte alla Casetta Bianca.

A Casteldaccia, dove oggi c'è l'Hotel "Solunto mare", si trovava anche il  mulino e pastificio dei "Fratelli Piraino" che cessò la propria attività intorno agli anni '80. Bnews

 

La foto  riproduce uno scatto di Angelo Restivo, nel Baglio Cavaliere, in periodo "r'astrattu"